sabato 27 giugno 2020

Come ogni giorno.


         

            Lui stamani ha indossato con calma una camicia pulita e stirata, e poi sopra una delle sue divise estive che sono in uso ormai da parecchie settimane perché fa già un caldo estenuante; quindi ha preso la borsa con dentro alcuni documenti, la sua pistola di ordinanza, il cappello, ed alla fine è uscito, come ogni mattina, o almeno come tutte quelle mattine in cui rispetta questo turno di attività. Si sente fiero del suo grado e della livrea impeccabile, e quando esce da casa e si guarda attorno nel gusto frizzante dell’aria di un nuovo giorno che si avvia ad iniziare, gli piace molto anche incontrare subito qualcuno tra i suoi vicini oppure tra i negozianti della zona dove abita, il giornalaio, o la tabaccaia, ad esempio, persone che conosce e che lo guardano sempre sorridendo augurandogli il buongiorno mentre si avvia ai suoi impegni quotidiani; spesso gli sembra addirittura che dipenda proprio da quel semplice segnale lanciato dai conoscenti tutto il buon esito della sua giornata. Sa che in caserma l’appuntato già lo aspetta per uscire fuori con la macchina di servizio, il solito giro di ricognizione, poi probabilmente andranno a fermarsi dalle parti dell’incrocio con la strada statale, per fermare qualche auto e tastare il polso alla situazione, per redigere insieme a fine mattinata un rapporto ben circostanziato su tutto ciò che riusciranno a constatare circa i comportamenti della popolazione riguardo al rispetto delle nuove normative di governo.
            “Buongiorno maresciallo”, dice uno dei giovani carabinieri di fresca nomina distaccati in quella piccola sede di paese. Lui risponde come sempre sottovoce, con il suo fare sornione, di chi la sa lunga sulla maniera di dirigere al meglio una stazione come la sua, dove ad operare sono sempre in pochi, e qualche volta assolutamente insufficienti ad affrontare certe casistiche complesse come questa della trasmissione virale tra i cittadini del loro territorio. “Oggi ci segnalano altri due nuovi casi dal comando di compagnia”, dice con profonda serietà chi ha trascorso il turno precedente a decifrare le notizie e a raccogliere le informazioni che giungono in caserma. “Va bene”, dice lui mentre aziona la macchinetta a cialde per farsi una tazza di caffè; “hai già trascritto tutti i dettagli immagino: lasciali sopra la mia scrivania, così li consulto prima di uscire”. 
            L’appuntato in quel momento è appena rientrato dalla rimessa da dove ha già tirato fuori la loro macchina di servizio, salito i tre gradini all’interno della robusta recinzione che circonda la palazzina, ed entrato dentro gli uffici con un fare vagamente agitato. “Buongiorno maresciallo”, dice togliendosi in fretta dalla testa il suo cappello. “Forse ha già visto la brutta novità del giorno”. Lui lo guarda, si ferma un attimo perplesso con la tazza del caffè sorretta da una mano, mentre con l’altra fa il gesto come per incoraggiare subito ciò che c’è di così urgente da apprendere. “La moglie del sindaco”, fa l’altro; “portata via d’urgenza già in gravi condizioni”. Lui si siede lentamente alla sua scrivania, si sente perplesso, quasi costernato, poi prende con gesto misurato il telefono portatile e chiama immediatamente il sindaco, che però non gli risponde. Sicuramente ha cose estremamente importanti adesso che gli girano rapide dentro la mente, riflette. Ma dopo un attimo il sindaco lo richiama: “sono in ospedale maresciallo, non so che dirle”.
            “Lo so”, dice lui con estrema calma; “volevo soltanto farle presente che noi tutti siamo a disposizione per qualsiasi cosa di cui abbia bisogno”. Il sindaco lo ringrazia, non è certo il momento per chiamarsi per nome come in genere fanno, o per darsi del tu in modo amichevole come sempre succede nel corso dei mesi. Qualcosa di più importante adesso mette in fila le cose, e le lascia misurare con un metro fondante, essenziale, quasi alla base di qualsiasi espressione si cerchi dentro la testa. “Mi sento smarrito”, aggiunge soltanto il sindaco in questo momento; e dopo riattacca. “Appuntato”, dice il maresciallo alzando la faccia dalla scrivania; “abbiamo un dovere da compiere adesso, e niente potrà esimerci dal portarlo avanti, neppure oggi”.

            Bruno Magnolfi

giovedì 18 giugno 2020

Personaggio in caduta.


         

            Il male è dentro di lui. Certe volte si rigira dentro al suo letto svegliandosi nel sonno d’improvviso, ed immaginando come una specie di occhio elettronico capace di vedere dappertutto, si ritrova ad indagare a fondo tra i suoi organi, le sue viscere, la sua anima stessa. Poi si riaddormenta. Lo sa, ne è pienamente cosciente, che tutto dovrà precipitare un giorno tra questi, eppure continua a cercare un segno che mostri il principio, l’accenno, l’inizio, dell’inevitabile conseguente. “Non mi interessa”, dice a se stesso quando si guarda dentro lo specchio, e comprende che i suoi lineamenti, la sua espressione, i dettagli della sua faccia, non hanno alcun valore in confronto a tutto il resto e soprattutto al suo pensiero, in grado questo di articolare a comando qualsiasi forma, mossa, atteggiamento, anche in uno scenario già complesso. Le persone pagano per vederlo sofferente sopra al palco, e lui articola le proprie parole in una composizione ogni volta sempre nuova, all’interno di un canovaccio pretestuoso in cui spesso si divincola.
            Conosce perfettamente i meccanismi di immedesimazione che si compiono di fronte a lui, e lui sa suscitarne sempre di nuovi quando è il momento adatto, fino a piegare i suoi argomenti verso quella sgradevolezza che d’improvviso pare quasi annullare tutto il resto. Eppure tutto è sorretto da un filo sottile, ed ogni cosa dovrà pur abbandonarlo un giorno o l’altro, perché sa benissimo il tormento a cui sarà chiamato a tener testa. E’ vero, tutti hanno un male oscuro che li agita, ma lui riesce semplicemente, con pochi gesti e certe rare espressioni, a ricordarlo proprio a tutti quanti. Dovrà smettere, questo è il punto, perché adesso è arrivato proprio là dove desiderava, e non può proseguire a moltiplicare se stesso di fronte al pubblico. Odia replicare, ed anche il trasformismo, se anche fosse da prendere in considerazione, non fa parte della sua personalità.
            Non prevede altre soluzioni, se non uscire di scena in un momento qualsiasi, per non rientrarvi più. Niente di più facile, senza alcuna spiegazione, come la cosa più normale tra tutte quelle che si potrebbero sperimentare. Torna a guardarsi nello specchio: non ci trova niente di diverso oggi, è ancora il pensiero che contraddistingue la sua immagine, non i modi, non le dichiarazioni a favore di obiettivo, non le risposte argute impostate in precedenza. Non è facile, potrebbe ancora dire a chi lo domandasse, stare qui come un giullare ad intrattenere gli ospiti. Ma non pensa questo: sa con certezza che c’è qualcosa dentro, sotto la pelle, direttamente nell’organismo animale di ognuno, che prende delle decisioni assolutamente insormontabili, a cui non ci possiamo in nessun modo opporre, e soltanto quella compiutezza trova un senso, per noi chiamati solo a sostenerla. Oggi va così, potrebbe dire, e ciò che si è fatto vivo poco per volta in mezzo ai suoi pensieri, adesso se ne va, come la conclusione naturale di un disegno già previsto.
            Poi prende la giacca, esce, fa un giro per le strade inforcando i suoi invalicabili occhiali dalle lenti scure sotto ad un berretto calzato ad arte, prendendo aria, dimenticando ogni suo ruolo, forse incrociando persone che potrebbero facilmente riconoscerlo, ma che in nessun caso neppure mostrandone tutto il desiderio riuscirebbero in qualche modo ad aiutarlo. Ma lui si perde tra la gente, forse smarrisce persino quel suo male per un attimo, mentre continua a camminare sopra ai marciapiedi, e intanto indaga tra i gesti stanchi di chi incontra, immaginando già se stesso, in un giorno esattamente uguale a questo, privato della sua funzione e persino della sua personalità.

            Bruno Magnolfi

venerdì 12 giugno 2020

Senza neanche rassegnarsi.


          

            “Mi devono aiutare”, dice oggi con enfasi il proprietario della piccola gelateria sul mare ai suoi pochi clienti di adesso, negli scarsi momenti in cui qualcuno si fa vedere dentro al suo locale, naturalmente uno per volta. Tutti loro lo ascoltano e annuiscono con semplicità, e dicono che ha perfettamente ragione, ma dopo se ne vanno, indifferenti ai guai economici che girano attorno a quel suo storico esercizio. Settimane di chiusura senza avere il minimo appoggio, neanche morale, pensa lui nelle pause. “Mi hanno lasciato solo”, dice certe volte in questi giorni a chi ha voglia di ascoltarlo, e sono sempre di meno. Perché anche lamentarsi non è mai una bella cosa: la clientela sfugge volentieri a chi se la passa poco bene, ed ascoltare sempre i soliti discorsi quando si sta cercando un po’ di svago e leggerezza, non è certo piacevole. Tutti lo sanno che il momento risulta oltremodo difficile, e che si devono fare molti sacrifici. Ci vorrà del tempo per tornare quelli che eravamo, dice qualcuno; però non si può scaricare le proprie preoccupazioni sul primo che ti passa sotto al naso, questo è quello che pensano quasi tutti coloro che lo conoscono di più.
            Ha piazzato due o tre tavolini fuori dalla piccola vetrina, sul marciapiede, ma nessuno in questi giorni sembra abbia davvero voglia di sedersi in quello spazio angusto, e quando qualcuno invece entra dentro al suo locale, finisce per prendersi appena un piccolo cono gelato, e dopo se ne va. Non sono più quei momenti in cui c’era la fila fuori in certe giornate di primavera o durante i primi caldi avanti l’estate. Lui aveva anche due aiutanti che stavano dietro al banco frigo per servire, ed una ragazza sul retro a preparare continuamente con le macchine i contenitori, pieni dei vari gusti maggiormente richiesti: le cose andavano bene, a lui non rimaneva altro che starsene alla cassa, fare dei saluti e sorridere ai clienti, mettendosi in tasca un bel po’ di soldi tutti i giorni. Ha telefonato innumerevoli volte alle autorità per spiegare che adesso non riesce a farcela da solo se non viene aiutato, ma gli hanno fatto qualche blanda promessa e dopo basta, come per fargli capire che deve semplicemente inventarsi qualcosa per conto proprio se vuole rimanere in piedi.
            “Le spese vive sono rimaste tutte”, dice ad una donna che ha notato altre volte fermarsi lì da lui, e lei lo guarda, comprende perfettamente quale sia il problema: dopo mesi di chiusura, adesso era il momento di tirare il fiato, ma alla gente non va più di spendere, e da quel lungomare non passa quasi più nessuno. “Capisce il mio problema”, fa lui insistendo; e lei lo guarda ancora per un attimo con una piccola coppetta di crema e cioccolato in mano, tanto che le viene quasi voglia di lasciargli una mancia sul bancone, ma poi va via semplicemente pagando quello che è previsto, per non offenderlo, e non per altro. Lui adesso prepara soltanto le varietà di base del gelato, quelle più tradizionali, senza proporre sapori ricercati come in altri tempi. Ma in una giornata intera di lavoro in cui fa tutto da solo, riesce a mettere in cassa appena quello che gli serve per pagare l’affitto e le materie prime che ci vogliono per i suoi prodotti.
            “Mi sento disperato”, dice ad uno che passa da lì con la sua bicicletta, fermandosi soltanto per fargli un saluto. “Non ho neppure la licenza per tenere fuori i tavolini e le sedie, non ho mai avuto bisogno di fare del richiamo davanti al mio locale; ed invece adesso se passa un vigile in divisa, per il suolo pubblico potrebbe farmi una multa che non posso neanche pagare”. L’altro scuote il capo, poi riprende a pedalare, lasciandolo lì coi suoi pensieri. Questa è la vera depressione economica, pensa adesso lui rimasto solo. Quando d’improvviso ciò su cui contavi crolla, ed anche se hai ancora voglia di tirarti su le maniche e darti da fare per resistere, scopri che non è possibile, nessuno ti fa credito, e che le cose per te hanno girato proprio male: devi soltanto rassegnarti.

            Bruno Magnolfi   

venerdì 5 giugno 2020

Attacco diretto.


          

            “Non ci avevo neppure mai parlato, prima di adesso, però gli ho preso la mano, ed ho atteso con infinita pazienza che chiudesse i suoi occhi”, pensa lui da solo quasi sdoppiandosi dentro la sua mente, cercando in sé quella freddezza che il suo mestiere a volte gli richiede. Poi spiega ancora ai suoi pensieri di essersi semplicemente allontanato con lentezza nelle luci basse del notturno ospedaliero, nel suo piccolo reparto, dopo aver annotato l’orario e la situazione verificata, e di aver probabilmente pensato che tutti quanti in fondo siamo destinati a spegnerci, chi più lentamente, altri invece all’improvviso. Infine però ha telefonato a casa, perché in fondo non era neppure troppo tardi, e sua moglie gli ha risposto subito, come fosse quasi in sintonia almeno con alcuni dei suoi sentimenti più profondi. “Sono un po’ provato”, le dice adesso senza darle troppi dettagli, “anche se è normale che certe cose avvengano in un luogo come questo”. Poi ha riagganciato, si è seduto nello stretto ambulatorio in fondo al corridoio, ed ha iniziato a scrivere le pratiche e i dati del caso. 
            Adesso attende quasi con irrequietezza che qualcuno dei pochi pazienti in corsia schiacci il pulsante del campanello, che lo chiami, lo tenga impegnato, perché ha bisogno di sentirsi ancora in azione, di essere di nuovo utile a qualcosa, di riuscire a mandare avanti il suo lavoro, piuttosto che mettersi in un angolo a riflettere su tutto quello che accade e poi basta. Giungono rapidamente i colleghi che si occupano di queste cose, e prendono in carico la situazione; lui assiste alla sistemazione del corpo inerte di quella persona anziana, e nessuno tra loro scambia una sola parola, ognuno sa già perfettamente che cosa fare, ed ogni espressione di qualsiasi tipo apparirebbe solo superflua. Ed i suoi occhi per un momento sfondano il muro della nuda ed immodificabile realtà, assistendo quasi impotenti allo scorrere ordinario di un’intera vita davanti a loro, un’esistenza fatta di mille difficoltà, di risate, di piaceri, ma anche di tantissime giornate dure e tristi.
            Poi i colleghi portano via tutto, lasciando soltanto alle loro spalle un posto vuoto, che lui con calma inizia a riassettare, nonostante l’ora notturna, con gesti semplici, misurati, che cercano per professionalità l’indifferenza massima, per lasciare accogliere al meglio proprio in quel letto, forse tra non molto, un altro corpo, un nuovo malato, un’altra vita intera in balia di un destino che appare immutabile eppure concreto. C’è un filo sottile che segna il margine tra il lavoro e l’emozione, e certe volte resta difficile tener distanti questi due mondi, anche se è così per tutti, e nessuno può pretendere di sentirsi maggiormente sensibile rispetto ad un altro. I minuti scorrono nel silenzio teso tra il corridoio e le camere, accompagnati da un debole ronzio di qualche lampada bassa. Lui cammina tra la porta d’entrata e la finestra, con passi leggeri e cadenzati, percorrendo quel tratto parecchie volte, quindi si ferma, torna a sedersi, riprende in mano le cartelle dei suoi pazienti.
            Un nuovo giorno domani, dice il suo doppio; si volta una pagina, si devono affrontare altre cose, nuove difficoltà, far fronte ad ulteriori sacrifici. Ci vuole forza, lasciare rapidamente alle spalle altre nottate esattamente come sta trascorrendo questa, e dimenticare rapidamente ogni sguardo scambiato, ogni stretta di mano, ogni piccolo dolore trasmesso nell’aria da queste tante persone che ci si trova di fronte: anziani, sfortunati, fragili, facili prede, nella loro debolezza, di un attacco disumano e feroce, a cui non possiamo facilmente rimediare, ed appigliarci a tutto ciò in cui possiamo ancora essere utili, senza guardare mai indietro, perché questo è quanto ci è dato di fare, nient’altro. Poi però lui appoggia lentamente i fogli sopra il suo piccolo tavolo, ed una lacrima adesso inizia a scorrergli calma sopra il suo viso.

            Bruno Magnolfi