giovedì 27 agosto 2020

Caratteristiche proprie.

 

           

          

“Ma che vuoi da me”, gli ho fatto, mentre stavamo sedute al bordo dei campi da tennis a vedere gli allenamenti dei soliti ragazzi. “Fatti un giro, che io non ho tempo per te”, ho aggiunto; ma lui ha sorriso, si è alzato e si è fatto subito un giro su se stesso, come per ridere di me, anche se poi si è spostato davvero, e alla fine si è messo a chiacchierare con un altro che stava poco più in là. Allora mi sono accesa una sigaretta, ho detto qualcosa alla mia amica, e tutt’e due ci siamo fatte una risata senza neppure troppo significato, tanto per darci un tono, insomma. Forse era il momento giusto per andarcene via, e ritornare a camminare lungo il vialetto della pineta, dove nei pomeriggi ci stanno regolarmente tutti i ragazzi a perdere tempo e ad ingollare le birre, ma siamo rimaste ancora, perché c’era fresco, si stava bene, e i rimbalzi delle palline da tennis sulla terra battuta pareva ci facessero proprio compagnia. La mia amica ha detto che quello è un tipo strano, lei non lo conosce, però ha sentito dire che sembra sia uno di quelli che parla difficile, e sa sempre che dire.

Poi l’ho incontrato di nuovo, quando con la mia amica abbiamo deciso di farci un giro per i negozi del centro, e mentre eravamo a guardare qualcosa dentro una vetrina, ecco che lui arriva, sorride, indica qualcosa sotto alle luci di quel negozio, e poi fa il gesto come a significare che è proprio un bell’articolo, il migliore che riesce a vedere là dentro. Io sono rimasta per un attimo imbambolata, perché non sapevo che ci fossero dei ragazzi capaci di valutare l’abbigliamento da donna, ma poi ho pensato che questo è proprio un tipo strano, così gli ho detto: “e perché non me lo compri?”, tanto per fargli capire che piaceva anche a me e che se voleva fare tanto il carino era quello il gesto migliore da tirar fuori. Ed è stato lì che lui, senza quasi pensarci, con quella sua espressione ironica rimasta immutata, e i suoi gesti un po’ misurati e mai eccessivi, è entrato subito dentro al negozio, e si è fatto incartare quell’articolo, pagandolo senza battere ciglio ed uscendo poi, rapidamente. Quando ho preso la confezione ero incredula, però sono riuscita soltanto a dire: “grazie”, perché se avessi dovuto continuare mi sarei messa a piangere, non so neanche perché.

Così la mia amica, che non è certo una scema, si è allontanata di qualche passo con una scusa, ed io sono rimasta sul marciapiede con lui, che mi ha detto subito come si chiama, anche se già lo sapevo, e mi ha chiamata per nome, mostrando perciò che anche lui si era informato. Io non ho saputo dire un bel niente, ma lui mi ha parlato di colori, di come certe tonalità hanno una presa maggiore sulle persone, rispetto a sfumature diverse. Ha detto che spesso l’industria della moda tiene conto di questi gusti e li propone come fossero inventati al momento, anche se invece c’è dietro tutto uno studio complesso e molte indagini sulle persone e sui loro modi. Ho fatto cenno di si con la testa, ma mi sentivo già completamente attratta dalle sue parole, forse perché diceva le cose in modo semplice, anche se erano argomenti che non mi erano mai interessati. Poi mi sono ripresa, l’ho guardato meglio un momento, e ho detto invitandolo che io e la mia amica adesso avremmo fatto un giro lungo la via pedonale; ma lui ha detto che aveva qualcos’altro da fare, e mi ha solo spiegato che mi avrebbe cercato il giorno seguente, da quelle parti.

Ho detto che per me andava bene, poi gli ho fatto: “ciao”, sottovoce, senza aggiungere altro, anche se avrei voluto subito dirgli che mi piacevano un sacco i suoi modi di fare e di parlare, e che sarei rimasta ad ascoltarlo per ore, se ci fosse stato per noi tutto questo tempo a disposizione. Quando ho ritrovato la mia amica le ho detto che quello era il ragazzo migliore del mondo, e lei si è messa subito a ridere, perciò io le ho detto: “sei soltanto una sciocca; valuti le cose soltanto per averle sentite dire da altri. Bisogna conoscere meglio quello di cui si parla, altrimenti tutto diviene soltanto una mescolanza insignificante, senza alcuna caratteristica”.

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 26 agosto 2020

Lui non va via.

 

     

 

            Fuori da qui è tutto grigio, non c’è niente per cui valga la pena di uscire. Lungo il corridoio si contano ben trenta passi fino alle scale, poi non resta che tornarsene indietro. La sua cameretta lui la divide con altri due tizi, difficile riuscire a starsene là dentro con loro durante la giornata. Perciò ad ogni ora, esclusa la notte, vaga tra tutti i corridoi della costruzione, si ferma ad osservare qualcosa dalle finestre ferrate, scambia qualche parola con gli inservienti che lo conoscono bene, e perde tempo da solo riflettendo su tutto quello che gli viene alla mente. Cosa gli interessa di quanto sta accadendo fuori da quelle mura: la sua esistenza si svolge tutta là dentro, in mezzo agli altri degenti come lui, che prima o dopo sono finiti lì in mezzo, dopo varie depressioni, tentativi di suicidio, terapie psichiatriche di ogni genere. Le famiglie generalmente, trascorsi i primi tempi pieni di speranze, non ne vogliono più sapere niente di ognuno di loro, e così finisce che i ricoverati non trovano più alcuna ragione per desiderare davvero di tornare dai propri parenti. Le scale hanno due rampe da otto gradini ciascuna, più i larghi pianerottoli naturalmente, ma molti tra loro non ci si avvicinano neppure, quasi tutti hanno paura dello sprofondamento perlopiù, così rimangono per tutto il giorno al piano superiore, a meno che un inserviente non li accompagni dabbasso, dopo molte insistenze e rassicurazioni.

            Quelli gravi stanno in un’ala speciale, e siccome sono pieni di sedativi, non si vedono mai, se non in casi speciali. C’è anche il giardino, se uno proprio lo desidera, ma devi essere sempre accompagnato, perciò è un rompimento per tutti, e così nessuno lo frequenta. La porta principale è doppia, per aprire la prima basta suonare il campanello da fuori, per la seconda c’è bisogno di un inserviente che azioni un meccanismo dopo aver controllato tutto quanto. L’ingresso è una stanza maestosa di venticinque passi per quasi diciotto, e spesso sostano in diversi da quelle parti, prima o dopo il pranzo, qualcuno ridendo, altri parlando tra sé, gli ultimi in silenzio. Gli inservienti riescono ad essere duri quando vogliono, e se qualche degente rompe un po’ troppo le scatole a qualcuno di loro, gli arriva subito una lezione diretta. Credo che a nessuno del personale piaccia stare qua dentro: quando uno finisce il suo turno cambia subito espressione, tira un sospiro di sollievo ed imbocca la porta sul retro felice come una pasqua. Quell’uscita posteriore si apre soltanto con la chiave elettronica, ed immette direttamente al parcheggio delle automobili. Quando qualcuno tra i degenti sta male davvero, allora arriva l’autoambulanza e se lo portano via da quella parte.

Lui comunque nella sua cameretta resta soltanto a dormire. Non ci parla neppure con gli altri, gli sembrano tutti completamente fuori di testa, e quando qualcuno di loro si avvicina per chiedergli qualcosa, risponde soltanto con un cenno, un gesto della mano, o un’alzata di spalle. Lui non vuole scappare da lì come dicono quasi tutti, anche se forse saprebbe come riuscirci. Non c’è gusto ad andarsene via, non saprebbe neppure verso dove, e poi tutto si complicherebbe e sicuramente gli inservienti gli darebbero subito la caccia. Perciò se ne sta lì, senza chiedere niente a nessuno, e quando sente qualcuno vicino che inizia a parlare di fuga, lui si allontana: non vuole essere preso nel mezzo dei loro piani, facciano pure tutto quello che vogliono, ma senza di lui.

Così un giorno, mentre è da solo dentro al salone dell’ingresso, qualcuno tra gli inservienti, forse di proposito, lascia aperta la porta sul retro, nascondendosi dietro un angolo nell’attesa di vedere cosa mai avrebbe combinato. Lui non si è fatto certo fregare, ci sono circa cinquanta passi da lì prima di arrivare al cancello che dà sulla strada, ed è rimasto immobile per tutto il tempo, senza preoccuparsi di nulla, come se tutto fosse al suo posto, e quando alla fine si è fatto vivo uno degli inservienti per vedere se gli venisse in mente qualcosa da dire, lui ha fatto soltanto un piccolo cenno, indicando quel varco rimasto spalancato, quasi a rimproverare tutti quanti che stessero più attenti, che forse qualcuno si sarebbe potuto approfittare della situazione, e magari andarsene via.

 

Bruno Magnolfi

domenica 23 agosto 2020

Intollerabili presenze.

 

            

 

            Il sibilo improvviso fende quell’aria ricambiata continuamente tramite le bocchette grigliate del grande impianto di condizionamento e deumidificazione, sospese ad una discreta altezza rispetto alla pavimentazione dell’enorme edificio che ospita la fiera annuale, e come una lama tagliente scagliata a pazzesca velocità da qualche misteriosa zona interna alle spesse mura perimetrali, si insinua poi in ogni angolo possibile del luogo, come a voler riempire ogni spazio, senza rispettare neppure una direzione precisa, che resta peraltro del tutto impossibile da definire, mentre la folla delle persone vaganti in quell’esatto momento all’interno di quella moderna costruzione, tra le innumerevoli installazioni coloratissime e dalle fogge estremamente creative, sembra comunque non avvertirne affatto la presenza, come se quel suono fortissimo, perdurante e anche nitido, forse prodotto da un generatore di frequenze di altissima potenza, oppure da un complesso macchinario elettronico forse sfuggito al controllo, e spingesse le vibrazioni audio generate là dentro molto al di sopra del livello di percezione di una qualsiasi normale persona.

            Annarita invece si porta immediatamente le mani alle orecchie: per lei il dolore che riesce a provare è davvero notevole, le è già capitato in passato qualcosa del genere, le sue capacità auditive si sono sempre dimostrate estremamente particolari e sensibili, ma anche guardandosi attorno tra tutta la gente che affolla la fiera, sembra in questo momento sia proprio l’unica ad avvertire quel suono e a provare quel dolore pazzesco, come se quella lama composta soltanto da vibrazioni, fosse stata creata e lanciata apposta per lei. Poi tutto si attenua, ed il sibilo poco per volta scompare, “forse un contatto non voluto”, pensa Annarita, “forse un aggeggio infernale di cui non si è verificata mai l’effettiva potenza”. Lei è arrivata là dentro da sola, sistemando la sua vettura non troppo lontano, nel grande parcheggio messo a disposizione dei visitatori da coloro che hanno organizzato la fiera, ma anche adesso, pur sentendosi molto meglio una volta svanito il rumore, le è rimasta una voglia decisa di andarsene, allontanarsi rapidamente da quel luogo, ritrovare al più presto un po’ di silenzio, anche sgombro da quel brusio che emana la folla là dentro, ma soprattutto tale che possa farle dimenticare la sofferenza patita poco prima.

            Ma in quel momento qualcuno la affianca, gli occhi coperti da occhiali oscurati, gli abiti seri, quasi distinti, e nel momento in cui le dice qualcosa senza volgere la faccia verso Annarita, il suono riprende, attraversa i corpi e gli spazi, lasciando di nuovo preda del dolore soltanto lei. I due uomini che adesso le camminano accanto, sembra abbiano la capacità di gestire in qualche maniera quella vibrazione, e di torturarla senza troppa preoccupazione, come se volessero strappare qualcosa da Annarita, forse una notizia che solo lei conosce, oppure qualcosa che le appartiene. Ma di scatto, pur cercando di turarsi ancora le orecchie, lei ha un moto improvviso e scattante, e in un attimo si va ad infilare in un capannello di persone, che prese così alla sprovvista la lasciano passare, richiudendo subito il varco che si era formato. Annarita scivola svelta accanto ad una struttura metallica dove sorridendo alcune persone mostrano ad altri le loro cose, e fa perdere le sue tracce ai due uomini in pochi secondi. Quindi si infila con rapidità in una uscita di sicurezza, e dopo pochi momenti è all’aperto, senza più quel rumore infernale e i due loschi figuri a tormentarla.

            Lascia momentaneamente la sua macchina dentro al parcheggio, e si allontana rapidamente a piedi da quel quartiere, fino a quando non trova un mezzo pubblico su cui sale, andandosene via. Il rumore potrebbe ancora inseguirla, pensa; i tizi nel padiglione della fiera probabilmente riuscirebbero facilmente a rintracciarla; ma intanto è lei vincitrice, e si è sottratta ad una situazione a dir poco inquietante. Il resto è tutto da definire, esattamente come appaiono le frequenze degli ultrasuoni: impalpabili, inascoltabili, inaudibili; praticamente inesistenti.

 

            Bruno Magnolfi    

martedì 18 agosto 2020

Migliori benefici.

 

          

 

            “E’ lei”, dicono tutti. Nelle abitazioni che si dipanano in fila lungo la strada, le cose vanno avanti come sempre: molte persone si recano a lavorare, i ragazzi affluiscono nei rispettivi plessi scolastici, qualche individuo invece resta a casa, ad occuparsi magari delle pulizie giornaliere delle stanze e del riordino degli oggetti di uso comune, mentre i pensionati quasi sempre trascinano la giornata tra le chiacchiere da scambiare ai giardinetti, e qualche acquisto di cui occuparsi con una visita nei negozi poco distanti. Lei abita da sola, in una casa anonima come sono tutte le altre in quella zona, una costruzione la sua che rimane quasi in fondo a quella via, lasciandola entrare ed uscire dall’abitazione sempre un po’ troppo di corsa, però sorridente e gioviale verso tutti i vicini che incontra, anche se sempre come indisponibile a scambiare perfino due semplici parole con qualcuno del suo quartiere. Lavora in centro, si dice, in un negozio di abbigliamento firmato e costoso, ed è quindi sempre ben vestita e con ai piedi delle scarpe con i tacchi molto alti. Alcuni sostengono abbia una relazione con un politico piuttosto in vista, ma non si è mai notato nessuno insieme a lei, anche se certe volte rientra tardi la sera, con la sua utilitaria vistosa, ultimo modello.

            Alcuni si sono chiesti perché mai una persona così debba abitare in una zona proprio come la loro, così periferica, trasandata, quasi senza tempo, costituita perlopiù da gente persino troppo ordinaria nei confronti di una bella donna come lei, ma ogni argomento del genere fino ad oggi è sempre stato lasciato decadere. Poi, quasi senza preavviso, sono arrivate alcune squadre di operai con i loro macchinari, e in un paio di settimane hanno asfaltato di fresco tutto il tratto della loro via, hanno messo una nuova segnaletica stradale, rifatto interamente i marciapiedi, e sostituito i vecchi lampioni dell’illuminazione con dei modelli più aggiornati, lasciando alle loro spalle un’immagine di quel luogo molto migliorata. Tutti si sono sentiti soddisfatti, naturalmente, anche se qualcuno ha iniziato subito a dire che per un iniziativa di quel genere ci dovesse essere alle spalle una persona influente, forse un assessore del comune, qualcuno con il potere di decidere certe iniziative.

            Così si è cominciato a guardare a lei con occhi diversi, dapprima con una certa gratitudine, poi con diffidenza, fino a tentare di ignorarla nel giro di pochi giorni, sempre per quel vago sospetto di intrattenere amicizie altolocate di cui tutti in breve hanno mostrato aperta convinzione, gente capace, nei loro discorsi, di fare e disfare qualsiasi cosa nello spazio di un attimo, alla faccia della povera gente come si sono sempre sentiti gli abitanti di quel quartiere di periferia. “Non è una come noi”, ha detto presto qualcuno; “ed anche se si fa vedere ben poco da queste parti, è bene starne il più possibile alla larga, che se per disgrazia ti prende di mira, allora sei finito”. Lei sembra abbia manifestato una certa indifferenza nei confronti dell’allontanamento progressivo di tutti i suoi vicini, e in ogni caso molti hanno iniziato a domandarsi per quale motivo non se ne andasse ad abitare in un posto più adatto alla sua personalità e alle sue amicizie.  

            Poi, qualche sera fa, è arrivata con la sua macchina fiammante riconoscibile fin da lontano, ha parcheggiato a bordo strada vicino ad un capannello di persone sul nuovo marciapiede dove stavano scambiando delle opinioni, e coi suoi modi sorridenti ha mostrato il suo apprezzamento per il rinnovato bene pubblico di quella via. Nessuno le ha risposto in un primo momento, limitandosi ciascuno soltanto ad osservarla; poi uno ha gridato che se era per dover ringraziare una persona come lei, sicuramente avrebbe fatto volentieri a meno anche di quei lavori migliorativi. Lei forse non ha neppure compreso perfettamente l’argomentare del suo vicino di casa, e in ogni caso non ha tentato di ribattere neppure una parola, probabilmente immaginando quanto sia facile, in mezzo a tutti quanti, trovare dei soggetti che non sappiano riconoscere neppure i migliori benefici.

 

            Bruno Magnolfi

mercoledì 12 agosto 2020

Questione di itinerario.

 


 

A lui era tornato a mente, forse perché infilato frettolosamente, come a volte si fa nei corridoi in mezzo a tante altre chiacchiere, solo qualche giorno più tardi quel discorso, quello che aveva fatto la sua collega d'ufficio (la più carina tra tutte, a quel piano di uffici, secondo lui), quando gli aveva rivelato che in quella stagione a volte le faceva piacere dopo il lavoro fermarsi ad un tavolino all'aperto del caffè sulla piazza, e rimanersene li, prima di tornare a casa, a guardare il traffico di macchine e tutta la gente che circolava a piedi da quelle parti. Lui non aveva dato alcun risalto a questa cosa, e l'argomento fornito da lei era parso semplicemente opportuno solo per parlare poi di altre faccende. Ma certo, pensa invece lui adesso, come se fosse proprio una scoperta improvvisa: era un mezzo appuntamento, un incoraggiamento piazzato in bella vista ai miei occhi per darmi il senso preciso della sua disponibilità, un aggancio per fornire a me e a lei l’occasione giusta di parlare in maniera molto più sciolta di noi due e delle nostre cose, senza avere attorno gli occhi e le orecchie di tutti questi colleghi ficcanaso pronti a spiarci, ed in quella occasione magari dare inizio a qualcosa dagli sviluppi futuri imprevedibili.

Adesso però è tardi, pensa lui stamani mentre riesce a darsi soltanto del cretino per l'occasione irrimediabilmente sciupata; eravamo proprio da soli io e lei davanti alle macchinette del caffè quando se n’è uscita a dire questa cosa: ora che ci rifletto ricordo benissimo le sue parole; ed era come per farla sapere soltanto a me, tanto che sicuramente è rimasta malissimo nel non vedermi da quelle parti quella sera stessa, come mi aveva precisamente specificato, ed è quindi complicatissimo adesso il tentativo di ricucire qualcosa che sono riuscito così stupidamente a rovinare. Perciò, mentre scorre lungo il corridoio degli uffici, lui ripensa con rammarico a quello che gli è capitato (o meglio, che poteva capitare), ma appena girato l'angolo che immette nella saletta dedicata alla pausa per il caffè, ecco che trova lei, sorridente, impeccabile, la solita, praticamente proprio la stessa come si fa vedere da tutti in ufficio in ogni giorno di lavoro. “Buongiorno”, fa lui cercando una disinvoltura non del tutto perfetta; “non ci eravamo più incontrati in questi ultimi giorni, pensavo quasi che avessi preso qualche giorno di ferie”. Lei sorride senza rispondere, poi torna a concentrarsi sulla bevanda che sta sorseggiando.

A lui non viene a mente proprio niente che possa aprirgli la strada per riprendere in qualche maniera l’argomento che più lo interessa, e lei non sembra proprio intenzionata a facilitargli in qualche maniera le cose. Poi, mentre sta infilando una moneta nella fessura della macchina, decide di buttarsi fuori quasi alla disperata, e fa, senza guardarla: “non sei più andata poi al caffè della piazza, mi pare; ci sono passato un paio di volte e non ti ho proprio vista”. Lei prende tempo, sembra quasi che moduli dentro la testa le parole giuste per la sua risposta, ma dopo un attimo fa, sorridendo con disinvoltura: “no, è vero, però mi ci fermavo soltanto qualche volta, non così assiduamente come si potrebbe immaginare. E poi mi trattenevo lì soltanto per dieci minuti, il tempo di salutare qualcuno che conosco, e poi riprendere la strada per andarmene a casa”. “Magari stasera si potrebbe prendere sulla piazza qualcosa assieme”, la incalza subito lui. “Potrebbe essere una buona idea”, risponde lei; “peccato abbia già un invito per quell’ora, e che abbia deciso da ora in avanti di cambiare locale ed itinerario per tornare a casa mia”.

 

Bruno Magnolfi 

venerdì 7 agosto 2020

Lasciandosi andare.

 

      

 

            “Un tumore, Renzo”, dice il dottore all’altro dottore che si ritrova davanti alla sua scrivania. “Un carcinoma polmonare destro in fase avanzata, le nostre preoccupazioni purtroppo erano davvero fondate”. Renzo accoglie il colpo senza staccare gli occhi dai fogli della biopsia e degli altri esami ospedalieri, sa che là dentro si lavora sempre al massimo delle possibilità scientifiche, ed anche se lui è soltanto uno dei tanti medici di famiglia, sa perfettamente di cosa si parla, e tante volte ha dovuto dare notizie del genere ai suoi pazienti, spesso cercando le parole più adatte per spiegare comprensibilmente e con grande tatto le cose nella maniera come si presentavano. Adesso il suo mestiere però non ha proprio alcuna importanza, anche se osserva ancora i referti con indubbio interesse clinico, ma lo fa come se quei risultati riguardassero un’altra persona, convincendosi comunque poco per volta che sta succedendo proprio a lui tutto questo, perché la stima per lo specialista che si trova di fronte lo porta a comprendere che alle sue parole non c’è neppure da aggiungere altro, né da porre qualche domanda: le cose stanno così, non c’è assolutamente alcun dubbio, inutile perdersi in delle chiacchiere inutili. 

            L’altro si alza, lo accompagna per quei tre o quattro passi che li separano dal termine di quella stanza, gli stringe la mano, lascia che Renzo riponga tutti quei fogli in una cartella che ha portato con sé, mentre nota che nonostante la sua faccia sia seria, l’espressione che il collega riesce a tenere sul viso è quasi quella di una persona che in fondo non ha grosse preoccupazioni, forse una maschera capace di coprire ogni piega della sua faccia, persino in questo momento, così come è stata in grado tante altre volte di fare, ma a ruoli invertiti, trattenendo qualsiasi emozione. Lui esce dall’ambulatorio con calma, aspetta che si chiuda la porta alle sue spalle, poi si incammina lungo il corridoio dai colori prossimi al bianco. Forse incrocia qualcuno che lo saluta, e lui probabilmente sorride, così come da sempre è abituato a fare con il suo lavoro. Ha la macchina ferma dentro al parcheggio dell’ospedale, al secondo livello dei sotterranei, ma vorrebbe tanto avere da occuparsi di qualcos’altro là dentro, prima di dover accendere il motore ed iniziare a riflettere a fondo su cosa fare, cosa dire, come affrontare quella tegola sopra la testa.

            Giunge di fronte ad un gruppo di ascensori metallici, ma sembra che siano colmi di gente che arriva a quel piano, ed anche di gente che attende impaziente di salirvi all’interno, così Renzo prosegue a camminare per il corridoio, guardandosi in giro, come cercando qualcosa che è lì, da qualche parte, ma che adesso non riesce proprio a trovare. Poi pensa non sia affatto il caso di perdere tempo: anche lui si è ritrovato infine tra gli incurabili, pensa; la triste categoria dei malati a termine, dei destinati, ed in questo momento in cui ancora come sempre riesce a camminare con le sue gambe, senza neppure tossire, senza provare forti dolori, senza provare l’angoscia degli ultimi giorni, deve decidere in fretta come occupare quel tempo rimasto. Infine sale su un ascensore, lascia che gli altri accanto a lui premano i loro pulsanti di destinazione, poi fa la sua scelta, quella di scendere fino al parcheggio del secondo livello, prendere la macchina e andarsene.

            Resta da solo alla fine dentro la cabina che si apre con un lieve ronzio in un ambiente illuminato soltanto dalle luci elettriche, dove le poche automobili presenti attendono silenziose. Renzo si avvicina alla sua, appoggia la cartella sopra il sedile, poi apre il bagagliaio senza fretta, e trova una corda che a volte gli serve per la sua piccola barca, e che adesso era sicuro di trovare là dentro. Senza dare nell’occhio, anche se sembra che non ci sia nessuno lì in giro, arriva fino alla zona più lontana di tutto il parcheggio, dove ci sono dei grossi tubi che percorrono tutto il soffitto. Vicino ad un gomito, dove il sostegno risulta robusto, dopo due o tre tentativi riesce agevolmente a far scorrere la sua fune, con rapidità fa un nodo che l’andar per il mare gli ha insegnato ad eseguire piuttosto facilmente, poi in punta di piedi ci infila la testa, lasciandosi andare.

 

            Bruno Magnolfi

martedì 4 agosto 2020

Angoli ottusi.

         

 

            Puoi prendere di corsa lungo il marciapiede, così lasciando dietro di te almeno coloro che proseguono ad affollare la via principale in questa fine mattinata, mentre fino ad un attimo prima anche tu naturalmente camminavi con calma insieme a tutti gli altri, come loro fermandoti ogni tanto davanti alle vetrine di questo quartiere, per poi adesso sparire in un attimo nell’inseguire chissà cosa, e svoltare con determinazione al primo angolo di strada che trovi, proseguendo ancora di furia, fino a ritrovarti finalmente da solo. Ti avranno osservato con curiosità per cercare di comprendere che cosa ti stia passando dentro la testa, ma dopo un attimo ognuno sarà tornato sicuramente ai suoi pensieri e alle proprie occupazioni. Tu sei attraversato da una scarica adrenalinica che forse non ti permette neppure di controllare le tue azioni, e quando infine ti fermi ansimando, non sai neanche dire che cosa di preciso ti sia accaduto in questi ultimi minuti.

            Lo so, lo sanno tutti, che non sei una persona troppo sociale, che forse ti diverti a calcare le differenze con gli altri, e che le tue scelte dimostrano ogni volta la tua necessità, come dire, di meravigliare. Per questo ti senti perennemente in fuga, e fingi con te stesso di esserlo continuamente, in qualche maniera, anche se alla fine non fai molte cose differenti da coloro che ti conoscono. Se ti paragoni a qualcuno trovi immediatamente delle differenze a tuo parere abissali che ti allontanano da ogni accostamento. Non frequenti dei veri e propri amici, soltanto dei ragazzoni della tua stessa età che ti salutano senza alcuna enfasi quando arrivi anche tu davanti al loro solito ritrovo. Ti siedi, abbassi lo sguardo, ascolti l’argomento che gli altri portano avanti, ma senza mai intervenire. Ti potrebbero dare un soprannome, se volessero; qualcosa che faccia perno sulla tua maniera di startene da solo anche quando sei insieme a tutti.

                        Quindi arriva lei, ti guarda per un attimo, poi si piazza seduta a sei o sette metri da te, anche se subito sprofonda nel consultare qualcosa sullo schermo del suo telefono. Non è una che parla, che scambia facilmente le proprie opinioni con gli altri, e questo aspetto ovviamente te la fa subito sentire vicina. Allora ti alzi, vai via senza dire niente a nessuno, ma torni dopo un momento, ti sistemi ancora lontano da lei, non la guardi neanche una volta, ma sai perfettamente che è lì, dietro di te, e continua a guardare il suo stupido telefono. Vorresti prendere di corsa ed andartene, ma adesso non puoi farlo, devi trovare un sistema per scambiare qualche parola con lei, per sentire la voce che ha, le parole che usa, gli argomenti che trova. Però se ne va, saluta sottovoce un ragazzo o due, mette via il suo telefono e poi sparisce, come se non ci fosse mai stata.

            Non ha importanza, non ha alcuna importanza, continui a ripeterti. Sorridi a te stesso come se stessi parlando davanti a qualcuno, attendi ancora qualche minuto, senti che non c’è nulla là attorno che possa interessarti minimamente, e allora vai via, lontano, senza neppure guardarti attorno. Ma appena fuori la trovi lì, davanti a te, mentre subito abbassa lo sguardo, cammina lentamente senza sapere dov’è che sta andando, mostra completa indifferenza rispetto a chi si trova di fronte, ma sei tu che sei lì, ed allora dici: “forse”, con voce comprensibile, senza sapere se attaccarci una frase a questa parola, oppure no. Lei ti concede uno sguardo, tu insisti e adesso dici: “chissà”, ma le tue sillabe sembrano cadere nel vuoto, non c’è nessuno a raccoglierle, non avranno mai alcun futuro e neppure una sponda a cui attraccare un solo momento. Non dici altro, la superi, poi inizi a correre, fino ad arrivare il più velocemente possibile al prossimo angolo.

 

            Bruno Magnolfi