giovedì 28 maggio 2015

Musicalmente.

            
            Certe volte Corrado si accorge di dimenticare qualcosa, ma quasi sempre pare convincersi facilmente che la memoria in fondo non sia un elemento del tutto essenziale. Perciò alza le spalle e spesso ci scherza sopra, senza mai preoccuparsene troppo. Un amico gli dice: Corrado, dovremmo trovare un po’ di tempo per noi, per divertirci, andarcene ad assistere a qualche concerto, o anche ad un cinema, non so. Lui annuisce, alla fine si sente di essere soltanto un abitudinario, uno che non ha mai bisogno di fare cose insolite per sentirsi davvero al proprio posto, però tra i suoi desideri qualcosa sembra sempre restare incompiuto.
            Il suo amico certe volte lo porta fuori, a passeggiare, ed è in quei momenti, con calma, che gli pone delle domande dirette, tanto per sincerarsi di come stia veramente, e se almeno il suo umore sia positivo. Corrado in genere si schernisce, ma qualche volta quasi casualmente inizia a parlare di sé, delle sue piccole quotidiane preoccupazioni, del suo mondo generalmente composto da elementi minuti, da pensieri sparsi, da gesti e comportamenti a cui normalmente non riesce a rinunciare. L’altro sorride: mi sembri in forma, gli dice, non capisco cosa ci sia da preoccuparsi.
            Anche Corrado sorride, ha sempre bisogno di tempo per parlare davvero di sé, delle sue cose che contano, ma alla fine, dopo averci pensato, dice soltanto: sto perdendo la memoria, giorno dopo giorno. Agli inizi non sembrava qualcosa di particolarmente preoccupante, ma adesso che molte cose non ci sono più nella mia testa, e che non ricordo forse anche qualche parte essenziale della mia storia, è come se un lato di me fosse evaporato, ed io praticamente ormai rivestissi soltanto una persona diversa da ciò che sono stato fino a questo momento. Magari è soltanto una sensazione, ma il fatto che tutto si stia come aggravando, mi fa sentire proprio così.
            L’altro annuisce, comprende abbastanza bene quello che gli sta succedendo, ultimamente gli è già accaduto più di volta, parlandogli di qualcosa che magari hanno fatto assieme nel passato, accorgersi di come Corrado non ricordasse quasi niente, e lui avesse la sensazione di confrontarsi con una persona diversa dal suo amico di sempre. Non importa, gli dice senza far pesare troppo le sue parole: quello che conta davvero sono le scelte che si fanno, il desiderio di essere in un modo piuttosto che nell’altro, e la capacità di porsi di fronte a tutto quanto, come una persona veramente in grado di essere e di decidere.
Ecco, dice Corrado: fare; vorrei che emergesse sempre di più, piuttosto che prepararsi a fare. Non importa niente adesso accumulare le cose, credo; importa usarle, inventarsi di nuovo tutto strada facendo. L'altro raccoglie subito le sue parole: bisogna assolutamente andare ad ascoltare della musica, dice; sentire il tempo che scorre interpretato da un arabesco di suoni, perdersi in qualche meandro organizzato di armoniche melodie, e dimenticare così tutto il resto. Forse hai ragione, dice lui, cosa importa in fondo vivere soltanto in mezzo a dei ricordi, per delle nostalgie che sono soltanto delle scuse per riempire i momenti difficili. Meglio spingersi avanti, trovare cose nuove da pensare, nuovi elementi su cui riflettere, e grazie ai quali immaginare ancora un futuro. Certo, dobbiamo andare ad ascoltare della musica, dice ancora Corrado; ma non per ricordarci di qualcosa, ma per sapere che c'è ancora  molto da immaginare di fronte a noi.


Bruno Magnolfi

lunedì 25 maggio 2015

Madre truccata.

            

Anche se fosse vera, è evidente che per lui sarebbe la medesima cosa. Un piccolo pezzo di plastica bianca ed opaca, opportunamente curvo e con la punta arrotondata, che lui sostiene essere stata un'unghia di sua madre, prima di morire; ed anche se nessuno ha mai potuto credere ad una cosa del genere, ugualmente non viene mai messo in dubbio che sia effettivamente così, almeno quando a lui gli va di parlarne. In ogni caso, pur se non si comprendesse il significato di trattenere in un cofanetto una reliquia del genere, a maggior ragione portarsene dietro una scopertamente falsa sembra quasi un segnale di malattia mentale, o qualcosa del genere.
Per il resto lui parla poco, se ne sta sempre in disparte,  ma a qualsiasi cosa gli venga chiesta risponde sempre correttamente, a voce bassa, e con cortesia. Nel locale che frequenta di pomeriggio, nessuno si è mai permesso di prenderlo in giro, anche se tutti sanno cosa tiene dentro alla tasca. Il signor Edgar arriva per la prima volta in un giorno qualsiasi, si siede, si fa portare una birra. Quando attacca discorso con lui che tra tutti gli è il più vicino, qualcuno vede il suo interlocutore frugare dentro alla tasca della propria giacca, quasi per un gesto scaramantico, forse, o per cercare là dentro una maggiore forza con cui affrontare gli argomenti dello straniero.
Infine, dopo alcune birre già tracannate, escono assieme probabilmente per una passeggiata, il signor Edgar e lui, e quando il giorno seguente si ritrovano lì alla medesima ora, in fondo nessuno prova alcuna meraviglia. Pare a tutti che stia nascendo una grande amicizia, anche considerato il fatto che il signor Edgar parla piuttosto male la lingua italiana, e forse la comprende anche peggio, ed in questa fase in molti si chiedono se il suo amico gli abbia già fatto vedere l'unghia finta, o se ancora si sia trattenuto dal farlo per un riserbo che in certi casi analoghi ha già manifestato ampiamente.
Le cose vanno avanti così per un breve periodo: loro due si ritrovano a fine pomeriggio, si fanno qualche birra parlando ad un tavolino, e poi si salutano, prendendo ognuno per la sua strada. Ma stasera non è andata come sempre, il signor Edgar è da solo, e sembra stralunato, quasi alla ricerca del suo strano amico. Lui non si fa neanche vedere, e quando ormai è ora di cena, e tutti si avviano verso la propria abitazione, eccolo infine che arriva, gli occhi bassi, il fare dimesso, le mani sprofondate dentro le tasche.
Ho perso l’unghia, dice al barista dopo essersi accostato al bancone, e sembra quasi sul punto di piangere. Dietro di lui, il signor Edgar lo guarda alzandosi dal tavolino, poi lentamente, come per non disturbarlo, apre la porta e scivolando se ne va via, quasi conoscesse già perfettamente quella storia che sta raccontando. Visto di spalle gli sembra forse un uomo finito, privo anche di qualsiasi volontà per andare avanti. Il barista gli versa una birra, lui la beve quasi d’un fiato, poi, quando sembra sentirsi un po’ meglio, chiede facendosi forza del signor Edgar. E’ appena andato via, gli dice in fretta  qualcuno, come spingendolo ad andargli dietro; vigliacco, fa lui, non vuole neppure starmi vicino, e magari aiutarmi nella mia ricerca disperata del cofanetto.
Tutto così sembra precipitare, ma quando lui poco dopo fa per andarsene da quel locale, ecco che sulla porta ritorna e lo ferma il signor Edgar; lo guarda, gli dice qualcosa, quindi gli stringe la mano, annuisce qualcosa, e infine vanno via insieme. Si dice che qualcosa dovrà per forza succedere, e che forse l’unghia non verrà neppure più ritrovata; ma nessuno sa dire, tra tutte le persone che lo conoscono, se lui da ora in avanti potrà essere soltanto un uomo completamente perduto, oppure se al contrario diverrà più che evidente in lui un suo progressivo e costante miglioramento.


Bruno Magnolfi

mercoledì 20 maggio 2015

Perdente nato.

           

Chi lo conosce lo reputa un uomo in gamba, sensibile, intelligente. Lui difficilmente parla di sé, generalmente lascia sempre agli altri la maniera di formarsi un'opinione. Eppure la sua nascosta debolezza, quasi invisibile perfino quando pare sfuggirgli al controllo, resta proprio l’intimo bisogno del sostegno di tutti, quel sentirsi incoraggiato nell'apprezzamento delle proprie espressioni, dei suoi modi, del suo intuito. Soffre, quando viene trattato come uno qualsiasi, come un uomo-massa qualunque, una persona media senza distinzioni, quale appunto egli è.
Lei lo ha osservato a lungo, quasi ogni mattina, con curiosità, in quello stesso vagone su cui quasi sempre salgono ambedue alla stazione della metropolitana, e alla fine gli è andata vicino, lo ha sfiorato di proposito, lasciando che lui le chiedesse qualcosa di insignificante, l'orario, per esempio, oppure se la sua era la fermata successiva, adesso neppure ricorda cosa, ma lei è sicura di avergli soltanto sorriso, senza neppure guardarlo, sottintendendo già in questo modo mille altre cose. Evidentemente lui ha dovuto iniziare timidamente a salutarla ogni mattina sopra quel vagone, fino a quando lei ha iniziato ad anticipare leggermente il suo orario per andare in ufficio, in maniera da incontrarlo come minimo più raramente.
Lui probabilmente si è così sentito messo da parte, e quindi stamani si è piazzato sul marciapiede della stazione della metropolitana mezz'ora prima del solito, con lo spudorato intento di cercare almeno di incontrarla. Lei è arrivata, con naturalezza, gli si è accostata quasi con spontaneità, e lo ha però salutato senza usare neppure troppa enfasi. Lui le ha subito accennato qualcosa sulla bella giornata, sulle variazioni d'orario dei mezzi pubblici, ed anche sui colori deliziosi del vestito che lei oggi indossa così bene, e lei si è schernita, gli ha sorriso, ha detto semplicemente che le dispiace di qualcosa, adesso non saprebbe neppure dire cosa, ma comunque ha messo in avanti il fatto che in questo periodo sta affrontando dei concreti problemi in ufficio.
Lui le ha chiesto se era possibile vedersi per un semplice caffè magari dopo il lavoro, e lei dopo una pausa gli ha detto: certo; anche se probabilmente non vorrebbe spingersi troppo in avanti con lui. Così gli ha spiegato che quel pomeriggio comunque non sarebbe stato possibile, e che era meglio rimandare ad un giorno non precisato della settimana successiva o quella dopo. Lui si è quasi sentito scansato, ma non ha detto niente, anche se avrebbe avuto voglia  immediatamente di spiegarsi, di chiedere, di scambiare con lei mille altre cose che sull’immediato gli venivano in mente.
Quando poi lei è scesa, lui l'ha salutata accompagnandosi con un leggero sorriso; lei lo ha guardato negli occhi, gli ha sfiorato una mano, e con il suo atteggiamento è parso come se lo abbracciasse, quasi quello fosse un addio. Lui adesso è tutto il giorno che riflette su tutto quanto, forse avrebbe soltanto voglia di voltare pagina, cambiare orario quel tanto che basta per non rincontrarla più con facilità, ma gli pare impossibile non cercare di sciogliere quegli interrogativi che si sono formati intorno a loro due. In fondo non c'è niente di male nel tentare di riempire quel quotidiano piccolo vuoto del viaggio, pensa adesso; lei è una donna interessante, riflette, forse un po' troppo sicura di sé per il suo carattere; e in ogni caso lui prova una spinta naturale a conoscerla meglio, a sapere almeno qualcosa di più della sua storia, anche se è cosciente che non le porrà mai delle domande dirette.
Si potrebbe aprire tra noi un futuro possibile, pensa ancora, anche se tutto probabilmente dipenderà dal mio comportamento, dalla mia capacità di mostrarmi come minimo interessante, e anche capace, forse ricco di idee. Probabilmente però non sarò mai in grado di stare all’altezza della situazione, riflette alla fine: tanto vale ignorarla; sin da domani mattina.


Bruno Magnolfi

domenica 17 maggio 2015

Essere umani.

            
            Piero sta portando fuori il cane, come ogni sera, dopo le dieci. C’è un grande giardino comunale dietro casa sua, giusto duecento metri di marciapiede e poi è arrivato. A fianco parcheggiano le auto, a lisca di pesce, lui costeggia quelle macchine, entra nell’erba, quindi scioglie il guinzaglio, e va a sedersi tranquillo sopra una delle panchine. In genere è da solo, osserva il suo cane, pensa ai fatti propri, si trattiene lì soltanto una mezz’oretta. Poi richiama l’animale, torna ad agganciare il guinzaglio, e infine se ne va, per tornarsene a casa, senza alcuna fretta.
I ragazzi imboccano la striscia del parcheggio lasciando stridere le gomme sopra l'asfalto, il motore sembra mugghiare per l'alto numero dei giri, loro probabilmente ridono delle furbate che riescono a fare quando sono in compagnia. Il cane di Piero si prende una frazione di secondo in cui fiuta il pericolo di quei fari che piombano improvvisamente su di lui, tenta forse  uno scarto, ma ormai non c'è più tempo, la parte destra del paraurti lo striscia su un fianco, lo scaraventa subito a terra, senza dargli alcuna possibilità di difesa. Piero tiene ancora il guinzaglio, guarda il suo cane che mugola, e in un attimo si rivolge verso i ragazzi che all’improvviso sono fermi e forse si rendono conto di quello che hanno fatto. Allora li affronta, il sangue caldo circola in fretta, tutto è immediato, gli manca quasi l’aria mentre apre lo sportello di quello che guida.
Il primo pugno lo sferra in pieno viso, senza attendere niente, poi, quando l’amico scende per difendere l’altro, lui è cosciente di avere ormai lasciato il guinzaglio, di difendere qualcosa estremamente più importante di qualsiasi altra cosa, e non gli importa se ci saranno conseguenze per quello che sta facendo. Stende a pugni e a pedate il secondo, e in seguito anche il terzo, è una furia scatenata la sua, e forse, se avesse solo il tempo per riflettere, non riuscirebbe neppure a ricordare in tutta la sua vita quando si sia sentito un’altra volta così, forse perché non c’è mai stata una volta paragonabile, ma questo non ha alcuna importanza, perché tutta la sua esistenza si è come concentrata in questo momento, adesso, senza alcuna alternativa.
Piero piange di rabbia, alla fine, prova l’importanza di quel momento, sente le mani doloranti, vorrebbe ancora spaccare i fari di quella macchina stupida assurdamente rimasti accesi, aspira quel silenzio fermo dell’aria, guarda i suoi nemici che si divincolano a terra nei loro dolori, vorrebbe distruggerli ancora, schiacciarli, eliminarli completamente, ma il suo cervello in pochi secondi ricomincia a funzionare quasi regolarmente. I ragazzi si rialzano, uno vomita, gli altri due si sorreggono a vicenda. Non sanno neppure se risalire in macchina o cercare di parlare con quell’energumeno che forse ha dato loro la lezione che in fondo si sono meritati, ma proprio in quel momento guardano il guinzaglio che è rimasto lì a terra.
Piero segue d’istinto quel loro sguardo, si volta , ha ancora le mani contratte, forse vorrebbe ancora scatenare sopra di loro una parte di quella violenza provata dentro al suo spirito, ma adesso c’è qualcosa che lo richiama alla realtà, c’è qualcosa che gli chiede un gesto diverso. Il cane è a terra, lo guarda, Piero lo prende, sembra quasi non abbia delle ferite, forse zoppica un po’, ma sembra qualcosa di poco conto. E’ un film sbagliato, dicono tutti, bisogna cambiare, pensare molto a cose del genere, e infine tornare ad essere umani.

Bruno Magnolfi


giovedì 7 maggio 2015

Fine del periodo.

            

            Lei aveva soltanto venti anni quando si era messa con il signor Mario che abitava al piano sopra l’appartamento dei suoi genitori, mentre lui aveva già superato abbondantemente i quaranta. Naturalmente tutto era stato fatto ed era proseguito in grande segreto, tenendo conto di orari, situazioni, possibilità. Lui svolgeva una normale attività di commercialista, ed era regolarmente sposato con una gentile signora che lei salutava cortesemente ogni volta che incontrava lungo le scale, sorridendo anche al figlio sempre tenuto per mano, che frequentava già la scuola primaria.
            Lei era soltanto una studentessa al quarto anno di lettere. Con tutte le limitazioni ed i rischi che c’erano, di fatto loro erano riusciti a vedersi pochissimo, concordando sempre i tempi esatti in cui lui riusciva a rimanere in casa da solo, quando lei, spesso con tutta la fretta possibile, ed accampando sempre delle scuse generalmente banali per uscire, poteva fare le scale e raggiungerlo. Tutto durava sempre ben poco, giusto il tempo di scambiare qualche dolcezza, spogliarsi in fretta, e poi via, un ultimo sguardo, ed ognuno per conto proprio.
            Oggi è trascorso poco più di un anno da quei primi tempi, e lei ha diradato le volte in cui sale nell’appartamento del signor Mario, come continua a chiamarlo. Le piace ancora ritrovarsi con lui, sistemarsi con calma su quel divano in salotto, e poi sciogliere con lentezza il nodo della sua cravatta, come fosse un inizio già concordato, e con due parole fare un po’ la sciocchina; ma tutto, negli ultimi tempi, sembra ormai diventato come una qualsiasi abitudine.
            E’ una storia da chiudere, pensa lei qualche volta, anche quando è lì, proprio su quel divano; ma non riesce mai a decidersi. Così rimanda sempre qualsiasi iniziativa. Loro non parlano, non hanno mai parlato di niente, se non sottovoce delle cose essenziali per tornare a vedersi. Affrontare adesso quell’argomento, cercare addirittura di spiegarsi, di farsi capire, è qualcosa che almeno a lei torna addirittura innaturale. Così lascia perdere, rimanda, evita il tema.
Di quella relazione lei non ne ha mai parlato con nessuno, d'altronde non ha certo avuto bisogno di comprensioni, e neppure di pareri scandalizzati da parte di amici o colleghi di corso. Però adesso non sa cosa fare, oscilla tra un pensiero e quell'altro, e qualche volta sente il bisogno di confidarsi con qualcuno sentendo mancare almeno in parte la voglia di salire le scale. In fondo si crogiola in questa indecisione, ed anche se da un lato sa che deve prima o dopo affrontare la cosa, dall’altro tende spontaneamente a rimandarla. Sa che ha troppo da guadagnare chiudendo quella storia, lo comprende benissimo. Ed a volte si dice tra sé che non avrebbe mai dovuto neppure iniziarla, anche se si giustifica che è stato un fatto d’istinto, senza una vera scelta di fondo.
Ora sta studiando in camera sua, su un vecchio testo di Schlegel, quando gli giunge la vibrazione di un messaggio sul suo cellulare. E’ il segnale, adesso può salire da lui, dal suo signor Mario; lei si prepara, dice qualcosa alla mamma, prende dei libri con sé per avere almeno una copertura, poi apre la porta. Lui la riceve, la guarda, l’abbraccia, dice subito però che è l’ultima volta. Lei è sorpresa, prova una vertigine, un improvviso terribile senso di abbandono, forse ingiustificato: ma poi lo stringe un attimo, racchiude tutto in un gesto, e infine se ne va, senza rispondere niente; così si chiude un periodo.


Bruno Magnolfi