venerdì 29 maggio 2020

Libera nell'aria.


           

            “Non è sempre stato così”, dice lei alla sua vicina di terrazzino, mentre sta quasi osservando qualcosa che in questo momento immagina come un punto lontano, oltre le facciate di tutte quelle case intorno decisamente simili, in fondo a quei palazzi di quartiere dove tutti gli inquilini hanno sempre finto di conoscersi tra loro, sentendosi uniti in qualche modo da quel loro semplice abitare, rimanendo poi tutti rinchiusi nei propri appartamenti per quelle tante e lente ultime settimane, condizionati in ogni loro azione individuale dalla paura folle del contagio, e scoprendo con sorpresa la notizia di qualcuno ammalato per davvero, in pericolo di vita, confessandosi sottovoce queste informazioni proprio dentro al piccolo supermercato della zona, entrando tre per volta, attaccati ai numeri delle vittime e degli ammalati ribaditi ogni giorno da tutti i notiziari. Non sono state molte invece le occasioni tra loro due per scambiare qualche parola: la sua vicina è giovane, sposata da poco tempo, ed è venuta ad abitare nell’appartamento accanto al suo praticamente meno di un anno prima. Poi tutto si sa, è come precipitato, ed il semplice buongiorno scambiato inizialmente per pura cortesia sulle scale del sesto piano oppure dentro l’ascensore, è diventato rapidamente un rispettoso e distanziato: “come va?” accompagnato ad un largo sorriso, tanto per sentirsi in fondo dalla stessa parte, e per ripetere quasi le medesime cose di ogni giorno.
            Lei al contrario abita in quel palazzone senza caratteristiche da più di trent’anni filati, dall’epoca lontana in cui era ancora in vita suo marito, quando le giornate spesso apparivano molto più leggere, prive di preoccupazioni vere, senza le ossessioni che adesso ormai paiono addirittura quasi naturali. “Ci sembrava il paradiso questa zona e questa casa”, aggiunge poi con un leggero sorriso amaro. L’altra non riesce a spingersi così indietro nel tempo tanto da immaginarsi quel quartiere in anni così differenti, però annuisce, dà ancora due colpi di scopa al pavimento del terrazzo e quindi rientra, per continuare con le sue occupazioni. “Forse era quella scarsità di soldi in tasca a costituire una vera e profonda differenza”, pensa adesso lei, rimasta sola davanti alle file ordinate delle tapparelle tenute dai residenti degli appartamenti a metà corsa sopra le finestre dei palazzi in faccia al suo. “Però si stava bene, sembrava proprio non mancasse altro”.  
            Quindi rientra dentro alle proprie quattro stanze, con un’ultima occhiata all’aria tiepida ed alla luce intensa che regna subito là fuori, quasi una rondine che gioisce per un po’ di cielo aperto, per poi infilarsi subito dopo dentro un tetto. “Neanche i miei figli hanno apprezzato tutto questo”, pensa ancora; “ed appena ne hanno avuta la possibilità, sono volati via, come se questa fosse stata per loro quasi una piccola prigione”. Anche lei evidentemente si era dovuta accorgere, ad un certo punto, ma molti anni dopo, che quel quartiere tirato su rapidamente negli anni in cui l’economia girava bene, non era esattamente il paradiso, però l’abitudine a stare in quella casa non le era minimamente mai parsa una possibile costrizione, non come adesso comunque, quando d’improvviso le quattro mura sono diventate per tutti, e anche per lei, l’unico luogo dove poter sedere e respirare senza filtri e protezioni, il solo ambiente adatto per una tranquillità completa, come hanno continuato a ripetere le autorità in tutti questi mesi e ad ogni notiziario.
            “Non importa”, pensa adesso mentre si siede nel suo angolo di casa preferito. “Passerà anche tutto questo”, proprio come qualsiasi altro periodo difficile che in una vita ci si trova ad affrontare. Torneremo a stare bene, ad essere contenti di quel poco che comunque ci è toccato, e a dare un’altra occhiata al cielo, da queste finestre o dalla terrazza, ed a scoprirsi già contenti di sentirsi liberi nell’aria, almeno per un attimo.

            Bruno Magnolfi

domenica 24 maggio 2020

Abnegazione.


          

            Davanti alle enormi vetrate, di fronte all’ingresso, c’è un enorme piazzale asfaltato riservato al parcheggio. Difficilissimo trovare là in mezzo un posto auto fino a qualche tempo fa, tanto che ultimamente fa quasi tristezza rendersi conto come spesso in questi giorni rimanga quasi vuoto. “Ho perduto la spinta”, fa lui all’improvviso mentre guarda le poche macchine ferme brillare adesso nel sole, qua e là. “Non dire sciocchezze”, fa lei dopo un attimo senza neppure guardarlo, mentre riordina alcune cartelle dei suoi pazienti dentro l’ufficio al secondo piano del piccolo ospedale cittadino. “Dico sul serio”, prosegue lui; “la missione che sentivo dentro di me si è come intorpidita in queste ultime settimane, ed adesso non sento più quel bisogno di profondermi verso gli altri che avvertivo da sempre dentro di me”. Lei interrompe per un momento il suo compito, osserva di fretta il profilo di quel medico che è sempre stato il suo punto di riferimento, poi fa: “sei stanco, indubbiamente; è normale sentirsi così in questo periodo, anche d’improvviso”.
            Poi ambedue scendono le scale, sempre tenendosi a dovuta distanza, salutano qualcun altro medico del personale che sta montando proprio adesso di turno, ed infine si fermano per un momento sul largo pianerottolo del primo piano, si accostano con calma alle macchinette per il caffè ed inseriscono uno alla volta la propria moneta prendendosi ognuno una bevanda calda. “Non so”, dice lui, “probabilmente non dovrei neanche parlarne, specialmente in un momento come questo, ma è come se all’improvviso tutto mi apparisse identico, monotono, sterile di qualsiasi possibile slancio. Sono cosciente del fatto che tutta la gente stia tifando per noi, per il nostro sacrificio in corsia, per la disponibilità totale che stiamo dimostrando, però qualcosa di intimo si è inserito dentro di me, ed anche se ancora sono orgoglioso di essere parte del meccanismo sanitario di questo paese, adesso però mi sento a terra, senza più alcuna volontà per andare avanti”.
            Lei lo guarda, e nota effettivamente una stanchezza profonda nella sua espressione, come se qualcosa davvero non avesse funzionato negli ultimi giorni durante il suo necessario ripristino quotidiano di entusiasmo, ed adesso provasse per questo motivo un intenso disagio, quasi un’incapacità a riprendere in mano il compito abbracciato e scelto per sempre. Sorseggia per un attimo il suo caffè, come sempre senza apprezzarlo, a compimento comunque del solito rito di fine turno, e poi pensa a tutte le parole che ha appena ascoltato dal suo esperto collega, senza riuscire ad obiettare qualcosa che abbia un minimo senso. In fondo è normale sentirsi svuotati quando tutto un paese ha richiesto da te il massimo in ogni possibile momento del giorno, pensa come fosse da sola. Ma non sa dire niente, niente che possa opporsi a quanto ha appena ascoltato.
            Ambedue gettano i bicchierini monouso dentro un bidone, poi rapidamente raggiungono la postazione dove si deve far strisciare il proprio cartellino dentro a una macchina, e compiono questa operazione esattamente come ogni giorno, in qualsiasi inizio o fine turno, forse senza neppure provare una particolare emozione. Escono, e finalmente sono all’aperto, davanti all’ampio parcheggio delle vetture, nell’aria pura e leggermente ventosa della serata, quasi priva da tutti i bacilli che purtroppo circolano dappertutto là dentro, in quella casa di cura, lasciandosi alle spalle un’altra giornata ordinaria, un altro turno concluso, un ulteriore servizio per la cittadinanza a cui generosamente hanno dato seguito, come ogni volta si deve, senza porsi domande, senza creare complicazioni. Quindi si salutano, senza dire altro, scambiandosi soltanto alcuni pensieri comuni, perché ognuno dei due ha una casa verso dove dirigersi, e ricaricare la propria abnegazione.

            Bruno Magnolfi

lunedì 18 maggio 2020

Giusto in questo modo.


           

            “Durante questo periodo le cose sono cambiate”, dice lei. Nel giardino comunale dove loro due camminano, sembra sia stata tagliata l’erba di fresco, e l’odore che la natura lascia emanare adesso dal terreno soffice sotto al sole e negli spiazzi larghi tra le alberature rade, risulta estremamente intenso e piacevole. Ci sono delle panchine di legno scuro posizionate qua e là lungo i tortuosi viottoli di terra battuta, però non c’è quasi nessuno seduto, almeno in questo momento. Lui guarda avanti a sé come per mostrare tutta la sua possibile comprensione per le parole di cui sembra mostrare un attento ascolto: loro si stanno rivedendo oggi dopo parecchie settimane, e non essersi cercati quasi mai per telefono durante tutto questo tempo in cui ognuno è rimasto chiuso ermeticamente in casa propria, ha assunto alla fine un innegabile valore di distacco. “Forse aver potuto pensare con molta calma a tutto quanto, mi ha portato a rivedere alcune posizioni che in questi ultimi due anni avevo quasi dato per scontate”, gli fa lei. Un cagnolino poi, uscito da dietro alcuni cespugli, corre giocoso per un attimo verso di loro, ma ad un tratto però si ferma come ad osservarli, annusa alla sua maniera l’aria tesa e le facce serie dei due che si ritrova davanti, ed infine, alla stessa maniera di com’è arrivato, torna indietro. Lui vorrebbe aver già terminato con quella serie di chiarimenti che sa dall’inizio a che cosa porteranno, ma anche se è stufo di ascoltare tutte quelle chiacchiere, finge ancora di essere estremamente attento e interessato.
Di fatto vorrebbe rapidamente cambiare tema, portare il loro discorrere verso argomenti molto più leggeri, che magari quasi per magia riuscissero a far tornare un po' di quell’intesa che c'era un tempo tra di loro, anche se gli sembra molto arduo. Ma lei prosegue rigida e imperterrita a considerare che forse è stato un bene non essersi visti per quel lungo lasso di tempo, e che adesso almeno per lei le cose appaiono molto più chiare. Tornano indietro, ad un certo punto, e si apre come una pausa di silenzio nel loro camminare lento, senza alcuna fretta; lui non trova alcun argomento di cui trattare, anche se forse avrebbe parecchie domande da farle, ma all’improvviso tutte gli appaiono in un modo o nell’altro fuori luogo. Lei invece adesso sembra da sola, come se non si attendesse alcuna particolare reazione da parte di lui, ed una volta trovato il coraggio di esporgli la propria interpretazione dei sentimenti che tratteneva almeno in parte inconsapevolmente dentro di sé, e chissà da quanto tempo, avesse scoperto finalmente quella forza e insieme quella leggerezza che infonde nell’animo il proprio sentirsi bene, a posto, privi di quel peso che certe volte si continua a trascinare dentro se stessi.
Tornano alla strada, lui ha la macchina parcheggiata poco distante, si offre di accompagnarla  da qualche parte se lei vuole, ma ottiene come immaginava solo un rifiuto, così le propone di prendere almeno un ultimo caffè insieme in un locale con i tavoli all’aperto lungo il marciapiede. “Ma tu, sembra proprio non abbia niente da dirmi,” fa lei; “forse c’è stato fin dall’inizio soltanto un malinteso tra di noi; e probabilmente è stato tutto per colpa mia”. Lui sorride mentre si siedono, fa un cenno al cameriere, espone frettolosamente l’ordinazione, poi le tocca con leggerezza una mano sopra al tavolino, come a voler produrre in lei un’ultima possibile, improbabile, debole scossa carica di significati, con un senso forse vago, ma ben più alto di qualsiasi parola da tirare fuori. Lei lo guarda un attimo, lui si fa serio adesso, le lascia subito quella piccola stretta alla mano per prendersi una sigaretta e poi accenderla, come per emettere una boccata di fumo oltre loro due. Lei lo guarda ancora, forse attende qualcosa che non si verifica, intanto arrivano i caffè, il silenzio sembra farsi improvvisamente persino troppo pesante; poi lui le dice soltanto: “va bene così”.

Bruno Magnolfi 

mercoledì 13 maggio 2020

Noia, soprattutto.


       

            “Ho paura”, dice lui. “Non tanto della malattia, dell’ospedale, o delle cure; quanto delle conseguenze che può lasciare tutto questo”. Lei si muove nella stanza, e piegandosi sulle ginocchia apre con decisione  uno sportello del mobile più grande, ne tira fuori qualcosa, una coppa di vetro brillante e colorato, ne osserva la trasparenza con una certa attenzione per qualche attimo, ed infine la rimette al proprio posto. “Siamo tutti immobili a cercare l’equilibrio giusto tra le cose”, fa lei quasi sbuffando; “l’incertezza, è il dato più evidente”. Lui resta in silenzio, poi si alza dalla poltrona e si avvicina ad una finestra, cercando di individuare là fuori qualcosa di diverso dall’ultima volta che si è fermato a guardare quello scorcio di strada sottostante. “Non si può proprio fare nulla”, dice lui sottovoce, quasi cercando una parola finale su cui appuntare ogni sua riflessione.
            Suona il telefono, è un’amica di lei che adesso le chiede come vadano le cose. “Niente di speciale”, le risponde la donna; “come tutti stiamo nell’attesa che qualcosa si risolva”. Lui si muove nervosamente dentro la stanza, infine esce, come a mostrare che quel tipo di conversazioni non gli piacciono, tornando a farsi vedere in quel salone soltanto quando lei ha finalmente salutato la sua amica e riattaccato la cornetta. "Stiamo tutti quanti a chiamarci l’un l’altro sapendo comunque benissimo di dirci sempre le medesime cose", fa lui come se la telefonata avesse interrotto tra loro due qualcosa di importante. Lei si accende una sigaretta restando seduta presso il grande tavolo tondo di legno scuro, lo guarda per un attimo senza assumere alcuna espressione, infine si alza e va a controllare a sua volta se ci siano novità fuori dalla finestra.
"È tutto fermo", fa lui; "non ci sono variazioni, alcun cambiamento, niente; se non che questa attesa ci sta limando i nervi a tutti". "Solo pensare che è così anche in qualsiasi altro posto mi fa sentire impotente", fa lei tanto per dargli l'impressione di stare dalla sua stessa parte. Poi però si muove, apre una rivista che aveva lasciato sopra al tavolo, e ricomincia a leggere qualcosa mettendosi seduta con comodità. "Non so come fai ad essere così tranquilla", dice lui di scatto. "Difatti non lo sono", fa lei; "però non ho voglia di essere presa nel mezzo da qualcosa che neanche conosco". Lui la guarda, forse vorrebbe dirle che ci potrebbero essere anche altre maniere per dimenticarsi della situazione, magari meno individualistiche; però non dice niente, e cerca subito di occupare la mente con qualcosa che lo faccia sentire almeno utile.
“La mia paura è anche quella di non essere all’altezza della situazione”, torna a dire lui alla fine, forse per distrarre la donna da quella sua lettura silenziosa. Lei lascia trascorrere qualche secondo; “se ti ammalassi non credo ti verrebbe chiesto qualcosa al riguardo”, gli fa senza neanche osservarlo; “tutto precipiterebbe rapidamente in quel caso, senza che ci fosse neppure il tempo di venire a chiederti cosa ne puoi pensare”. Lui si mostra stizzito da queste parole, gira per la stanza come cercando qualcosa su cui fermare il proprio sguardo, poi risponde: “ci sono molte maniere di affrontare un’importante malattia che può portare a conseguenze gravi, non capisco come fai a non rendertene conto”. Lei sorride, cerca di evitare l’accensione ulteriore in lui della suscettibilità che mostra adesso, ma appare evidente che avrebbe molto da ridire, come ad esempio la preoccupazione che sospetta in lui di ciò che potrebbero pensarne gli altri, i suoi colleghi di lavoro, le sue conoscenze, le persone che frequenta insomma. “Nel caso sentenzieremmo soltanto che eri un gran brav’uomo, se è questo che tanto ti preoccupa”, gli fa. Lui si muove, e misuratamente apre lo sportello del mobile, prendendo in mano la coppa di vetro colorato a cui lei sembra tanto legata, la guarda per un attimo e poi la rompe a terra, fingendo una sfortunata sbadataggine. “”Non importa”, gli fa lei. “Tanto mi aveva già annoiato”.    

Bruno Magnolfi

giovedì 7 maggio 2020

Basta con le punizioni.

        

            Laura è brava, obbediente, attenta, e qualsiasi cosa semplice le si chieda di fare, pur con le sue capacità un po' limitate, lei cerca testardamente di eseguirla, persino se non ne comprende del tutto il significato, e di portare avanti i suoi compiti in ogni caso, naturalmente al meglio che le possa riuscire. Certe volte però ride, si schernisce, specialmente quando non capisce qualcosa che le è appena stato detto, tanto che chiunque si accorge subito delle sue difficoltà, anche se lei non fa altro per evidenziarle, se non limitarsi a guardare un punto indefinito a terra, quasi per cercare l’ispirazione che in quel momento sembra mancarle, nell’attesa magari che tutto le venga spiegato di nuovo, disposta, come si dimostra ogni volta, ad ascoltare sempre ogni cosa che le viene detta, e ad impiegare tutta l’attenzione che le riesce. Costretta nelle ultime settimane a rimanere in casa insieme alla sua mamma oramai anziana, forse per un periodo di tempo un po' troppo lungo per le sue necessità, ha creduto ad un certo punto che quella di non poter uscire fosse quasi la punizione per un suo sbaglio inconsapevole. Così si è fatta triste negli ultimi giorni, sempre più seria, quasi senza più avere quella sua innata voglia di ridere e di stare insieme con gli altri. Sua madre l’ha fatta uscire subito quando si è potuto, portandola con sé dappertutto: in qualche negozio al momento in cui hanno riaperto, a visitare gli amici, lungo le strade del loro quartiere, e poi anche ai giardini, a salutare i conoscenti, anche se adesso Laura non sembra quasi più la stessa persona di prima, come se una parte di lei fosse mutata forse per sempre.
            “Va bene”, dice adesso Laura sottovoce, quasi tra sé, come se cercasse ancora di essere sempre d'accordo con chiunque su tutto quanto le viene detto. Parla un po’ meno di una volta, ed ora scuote il capo più spesso, forse per mostrare alla sua mamma che farà sempre in ogni caso tutto quello che lei vuole. "Non mi piace", fa però qualche rara volta quando la mamma si ferma a parlare con qualcuno e lei non comprende bene o per niente quegli argomenti. E in ogni caso si è fatta più seria, meno interessata a stare con gli altri, meno socievole, come invece mostrava di essere non tanto tempo più addietro. Ormai non è più una ragazza, ed il suo sorriso dolce mostra già qualche piccola ruga, però è una persona che tutti i vicini di casa conoscono, e nessuno può dire qualcosa di male su lei. Sua mamma, senza essere invadente, cerca di comprendere che cosa sia cambiato in poche settimane, ma non è facile capire che cosa le passi dentro la testa, specialmente quando lei pare triste, priva della volontà di relazionarsi anche con le persone che meglio conosce.
            Così stasera si siede con sua figlia al tavolo della cucina, la osserva senza insistenza mentre stanno cenando alla solita ora di sempre. “Non so cosa sia che non vada”, le fa la mamma evitando con criterio di porle una domanda diretta. “Forse ho sbagliato qualcosa; ma non riesco però a rendermene conto”. Laura allora la guarda con gli occhi sbarrati, con una commozione interna trattenuta all’estremo, e forse vorrebbe dirle che le vuol bene, come fa sempre, ed invece stasera si mette subito a piangere, come non riuscisse a trattenere una tristezza che pare uscirle da dentro in maniera diretta. “Sei la mia bambina”, le fa la mamma stringendola a sé, “non voglio che tu pianga”. “Va bene”, fa subito Laura; “però sono stati tutti lontani; e nessuno mi ha spiegato il perché”. La mamma cerca di dirle di nuovo cosa sia effettivamente accaduto alla gente, ma è difficile far comprendere a lei alcune cose, anche se adesso Laura sente di fidarsi maggiormente di quelle parole, e forse non crede più di aver meritato una punizione del genere solo per un suo stupido sbaglio. “Allora voglio tornare ad essere amica di tutti”, dice ad un tratto con convinzione. La mamma le sorride, ed anche lei, mentre si asciuga le lacrime, sente dentro di sé andarsene via, come trasportata dal vento, tutta la tristezza che aveva conservato fino a questo momento.


            Bruno Magnolfi  
       

          

sabato 2 maggio 2020

Allontanato.


         

            “Basta”, dice lui a voce alta da solo, mentre apre la porta del suo piccolo appartamento. “Sono stufo di starmene qui senza fare niente, ho bisogno di andarmene in giro, vedere un luogo diverso, liberarmi la testa”. Scende rapidamente le scale ma poi, una volta in strada, si ferma subito per osservare i dintorni. Non c’è quasi nessuno in questo momento, i negozi sono chiusi, le serrande abbassate, soltanto un paio di tizi un po’ stralunati con il rispettivo cane al guinzaglio. Prendere la macchina, scappare da qui a tutta velocità, pensa lui. Magari affrontando piccole strade provinciali dove non ci sono controlli, e poi arrivare sul mare, magari in qualche luogo isolato dove starsene in piena tranquillità e all’aria aperta. Poi sale sull’auto che lui non mette in moto oramai da alcune settimane, ma dopo un paio di giri il motore si avvia regolarmente. Ingrana la marcia e affronta l’asfalto, senza neppure riflettere dove andare di preciso e quali strade percorrere. Gli alberi lungo il viale, i marciapiedi vuoti, i semafori che occhieggiano regolando un traffico che non esiste, tutto appare strano, diverso, quasi surreale. Poi svolta a caso verso una strada periferica, e percorre tutto un lungo tratto fino a quando spariscono le case d’intorno, per lasciare spazio a larghi pezzi di terra abbandonati, con distese di erbaccia incolta invasa qua e là da qualche cespuglio spinoso.
            “La libertà è lontana da casa”, dice senza preoccuparsi di parlare da solo; la strada davanti serpeggia lungo alcune colline, mostra adesso ai propri margini qualche macchia di bosco e anche dei campi coltivati, lui guida con la mente via via più leggera, come se davvero si stesse liberando poco per volta del forte peso accumulato negli ultimi tempi. Va avanti così per almeno mezz’ora, supera un piccolo borgo di case dove sembra non ci sia neanche un cane, poi avverte sempre più forte l’aria di mare che entra con forza dalla fessura aperta del suo finestrino. Infine eccola, proprio laggiù: una striscia di azzurro incontaminato ed inconfondibile, una tavola d’acqua meravigliosa ed indifferente a tutti i problemi del mondo, col suo moto ondoso perenne, il suo essere sempre così da un tempo infinito. Lui si ferma vicino alla spiaggia deserta, priva di qualsiasi riferimento preciso, poi scende dalla sua macchina e subito affonda le scarpe nella sabbia dorata. Il mare rilascia con calma la sua spuma bianca sul bagnasciuga, e la linea merlettata dell’acqua mostra un confine inesatto con la terraferma, come se tutto fosse destinato ad un’interpretazione giocosa, e le onde giunte fin qui da chissà quale altra terra, iniziano a frangere e a rincorrersi lungo una zona a qualche decina di metri dalla riva appiattita, come sempre è successo.   
            Lui si siede vicino a quella battigia, poi si sdraia con le mani incrociate sotto la nuca, respira a fondo quell’aria leggera, sospinta da un vento di mare che non ha fretta, e che muove stancamente qualche nuvola bianca qua e là, come aquiloni sfuggiti di mano a bambini giganti. “Sono qui”, urla lui verso il cielo come per convincersi a fondo di quello che vede e che sente. Resta per molto nella stessa posizione, poi si sente spossato, quasi stanco del rumore del mare e del debole vento che continua ad accarezzarlo. Riprende la macchina, torna indietro, ripercorre con esattezza le strade che ha già attraversato, rivede tutto quanto quello che aveva visto poco prima, fissando adesso ogni dettaglio nella sua mente. Giunge davanti alla sua abitazione, parcheggia l’auto con calma, attende ancora un momento dentro quell’abitacolo, come se fosse rimasta imprigionata là dentro un po’ di quell’aria che ha respirato poco prima sul mare, poi chiude con cura i finestrini, sbatte lo sportello e si assicura della chiusura, cerca la chiave del portone condominiale ed apre con gesto deciso. “Sicuramente deve essere proprio così”, dice sottovoce mentre sta salendo le scale. “Ma è sufficiente l’immaginazione per sapere come sia veramente”.  

            Bruno Magnolfi