mercoledì 10 dicembre 2014

Viaggio della rinuncia.

            

Ho quasi paura, fa lui sottovoce proseguendo a guidare. L'altro finge di non averlo sentito. La donna, al fianco del posto di guida, dice che secondo lei devono in ogni caso spingersi in avanti. Fuori dall'abitacolo la notte appare impenetrabile, i fari della macchina rischiarano di fronte a loro una porzione ridicola di asfalto. Perché accade tutto in questo momento, riprende a chiedersi la donna a voce alta; perché mai proprio in questo momento. Nessuno risponde, tanto appare retorica quella domanda.
Alla fine di questo viaggio sicuramente molte cose saranno diverse, dice l'altro. Lui prosegue a guidare, ma dopo pochi minuti dice che forse sarebbe meglio se si fermassero, almeno per qualche minuto. L'altro non perde neppure tempo a chiedere il motivo della sosta, si limita a sbuffare e lascia che poco dopo la loro auto si immetta nella piazzola di un distributore di benzina ormai chiuso. Accanto all’area, sottolineato da un’insegna luminosa, c'è un piccolo autogrill ancora in funzione; la donna fa cenno che potrebbero andare lì e prendersi almeno qualcosa da bere.
Scendono in silenzio, entrano ordinatamente nel piccolo locale e si siedono ad un tavolo. Bene, dice l'altro con ironia, non ci resta che fare una bella chiacchierata come dei buoni amici. Lui non risponde, si limita a guardare da qualche parte con l'aria di chi vorrebbe essere altrove. La donna ordina al cameriere del caffè per tutti, poi spiega che secondo lei non c’è motivo per farsi prendere dai nervi. L’uomo del bar porta quanto ordinato, osserva tutti con aria quasi di sospetto, ma serve le tazze ed il resto senza dire niente. Lui gli chiede quanta strada ci sia ancora prima di giungere in città, e l’uomo dice semplicemente: non molto, senza aggiungere altro.
Quando tornano a salire sull’auto lo fanno un po’ svogliatamente, quasi provando sofferenza. L’altro dice senza mezzi termini che non ha più molta voglia di spingersi ancora in avanti, ma l’autista riprende a guidare quasi non avesse sentito niente. La donna si sistema sopra al sedile come meglio può, e dopo poco chiude gli occhi, proprio mentre una fila di lampioni a bordo strada mostra le facciate delle case di una piccola frazione.
Proseguono ancora in silenzio per circa mezz’ora o poco meno, infine delle forti illuminazioni mostrano già da lontano che stanno per giungere nella città. La donna si scuote, tira fuori dalla borsa alcune cose insieme ad un piccolo foglio con su scritto l’indirizzo dove devono recarsi; l’altro, sui sedili posteriori, appoggia le braccia agli schienali davanti a sé, quasi per essere maggiormente partecipe di quella fase.
Lui rallenta la guida, le strade cittadine si aprono agli inizi nell’interno di una periferia sostanzialmente anonima, ma poi alcuni viali sfociano invece in larghe piazze, alcune anche alberate. Alla fine la strada che cercano si staglia improvvisamente di fronte a loro, quasi in modo magico, così la macchina rallenta, si accosta, e poi va a fermarsi in un parcheggio libero.
Sono arrivati, adesso devono soltanto scendere, suonare il campanello come pattuito, salire le scale e riunirsi con gli altri che probabilmente sono già tutti arrivati: ma un brivido di fatto sembra attraversarli. Il motore e i fari spenti mostrano un vuoto terribile, il silenzio che si forma sembra quasi parlare per loro. Che facciamo, chiede la donna. L’altro la guarda restando in silenzio. Lui alla fine dice soltanto: andiamocene via, riavviando il motore.

Bruno Magnolfi


venerdì 5 dicembre 2014

Luce nuova.

            

L'immagine non è molto nitida. Lei appare raffigurata di fianco, seduta, china sul tavolo illuminato da una lampada fioca; forse sta scrivendo qualcosa, o magari sottolinea una parola o una frase importante che ha appena finito di leggere. A dire il vero, quella che tiene nella mano destra potrebbe addirittura essere una matita, e lei potrebbe tentare, come altre volte ha fatto, di dare forma ad un disegno che in seguito magari completerà con dei piccoli pennelli e dei colori. Probabilmente, da quello che si riesce a vedere, anche il resto della stanza in cui è immersa in quella penombra è essenziale, proprio come la sua figura, persino priva di inutili elementi di decoro.
Ora, si sa che spesso lei scende le scale del suo appartamento, e certe volte va a trascorrere un'ora nella saletta di un caffè lì vicino, insieme ad una sua amica. Oggi le ha raccontato di un sogno, giusto poco prima, quando si sono viste in quel locale; un sogno di molti anni addietro, ma che lei non ha mai dimenticato, quasi come fosse una cosa preziosa, da conservare.
Spesso lei scrive o disegna i fatti che cerca di tenere a memoria, perché la sua vera paura è che tutto di sé all’improvviso svanisca, evapori, proprio come fosse qualcosa che praticamente non  è mai accaduto. Però è anche vero che molto spesso le sue descrizioni le prendono un po’ la mano, e nello stesso momento in cui le sue parole finiscono sopra la carta, ecco che qualcosa inizia magicamente a cambiare, come se una nuova realtà stesse cercando di sovrapporsi a quell’altra.
Lei in questi casi sorride, prosegue comunque con il suo intento, forse aggiunge anche dei disegni alle sue frasi, tanto per cercare di essere ancora più esplicativa, ma spesso quella fedeltà con la memoria che lei vorrebbe tanto, sembra subdolamente annullarsi, lasciando variare direttamente in lei stessa, poco per volta ma sensibilmente, proprio quei suoi ricordi.
La sua amica leggendo quella pagina di diario che riguarda il suo sogno, le ha detto che qualcosa sembra diverso rispetto al racconto che ne ha fatto a voce, e lei si è come risentita, innervosendosi, tanto da voler cambiare argomento: forse non dovevo proprio parlarti di queste cose, le ha detto secca. Ma quando poi è tornata da sola nel suo appartamento, non ha potuto fare a meno di ripensare a quanto era successo.
Un sogno è qualcosa che appartiene alla tua intimità più profonda, ha pensato. Non se ne può cambiare il senso soltanto perché le parole mal si adattano alla sua descrizione. Chi possiamo mai essere, se non proprio le cose che abbiamo dentro, ciò che più fortemente di tutto il resto abbiamo pensato, desiderato, sperato, tanto da renderle figurate e illuminanti persino durante il nostro sonno, quando la nostra mente è del tutto autonoma.
Poi ha ripreso la sua posizione seduta davanti a quel tavolo: alcune carte davanti, il libro iniziato, la matita, gli utensili di ogni giorno per cercare di essere maggiormente se stessa. Ha tracciato un percorso, una linea contorta e complessa la cui decifrazione forse non riesce a portare la mente da alcuna parte. Ed infine è rimasta così, perplessa, piena di dubbi.
Poi la sua immagine si è fatta più chiara; maggiore luce è come arrivata dalla finestra, il bianco dei fogli ha mostrato ciò che c’era ancora da fare, lei si è scossa, ha ripreso il lavoro iniziato, ha ripensato a quanto aveva cercato di fare fino ad allora, ed infine si è soffermata di nuovo sul suo vecchio sogno: ma ha deciso in un attimo che forse adesso non aveva più alcuna importanza, c’era altro che urgeva, così si è alzata dalla sua sedia ed ha sorriso alla luce.  

Bruno Magnolfi



martedì 2 dicembre 2014

Vertigine momentanea.



Si rannicchia sullo scomodo sedile di quel treno locale, Tonio, ed osserva, senza farsene accorgere, una ragazza sola in fondo al vagone che è salita proprio all’ultimo momento prima della partenza. Non è da molto tempo che la mamma quelle due volte a settimana gli lascia raggiungere il Centro Sanitario senza che nessuno lo accompagni, anche se lei al pomeriggio lo aspetta sempre nella piccola stazione quando torna. Ma lui non ha paura, si sente bene, e quella mezz’ora sul treno tutto sommato gli piace, anche perché in molti lo conoscono e lo salutano sempre.
Non guarda mai fuori dai finestrini, questo è vero, la velocità gli mette sempre una grande apprensione, però dentro al vagone ci sta bene, riesce a trovare quasi sempre delle persone simpatiche che parlano con lui, gli battono una mano sulla spalla, si fanno raccontare tutto quello che fa e che gli passa per la testa. Ma oggi purtroppo non c’è molta gente su quel treno, lui si è sistemato su un sedile vuoto e ad un tratto ha sentito come un brivido, quasi provasse improvvisamente il bisogno di avere la sua mamma vicino, proprio come quando era più piccolo.
Sei proprio un bel ragazzone, gli dicono sempre tutti quanti quando lo incontrano, e Tonio però sa di avere quasi trent’anni, e che quella è l’età giusta per andare da solo fin dove gli pare; ma qualche volta, proprio come adesso, non si sente perfettamente a suo agio, e senza avere intorno almeno qualcuno che conosce, sente di non starci molto bene in giro, persino su quel treno che gli piace. Così guarda di nuovo quella bella ragazza, laggiù in fondo, e forse vorrebbe averla conosciuta precedentemente, averla almeno già vista là sopra, gli piacerebbe magari fosse una di quelle tante persone che a volte gli sorridono, che lo chiamano per nome, che lo salutano con allegria; ma non è così.
Si rannicchia di più, stringe i ginocchi magri con le sue braccia, la ragazza lo nota magari per un momento, ma poi torna con indifferenza a guardare fuori dai finestrini. Sono qui, vorrebbe dirle Tonio: forse potremmo avvicinarci un po’ tra noi, pensa, sorridere insieme, parlare magari di questo viaggio; e forse anche di come si trascorrono le giornate, queste giornate spesso piene di gente e di chiacchiere, e di domande a cui dobbiamo rispondere, e di compiti a cui bisogna far fronte. Si potrebbe diventare amici, magari, scambiarsi i nostri nomi, stringersi la mano come si fa in tutti questi casi. Ma lei non lo guarda, e lui forse adesso inizia a stare male.
Si volta verso il finestrino allora, ma per non vedere tutta quella velocità del paesaggio che fugge, si mette subito una mano sopra gli occhi. Neppure il controllore passa in questa strana giornata, pensa Tonio: sono solo, forse neppure la mamma sarà alla stazione ad aspettarmi. Improvvisamente lui sente che non gli importa più di niente, forse neanche di scendere a quella stazione: vuole soltanto dormire, ecco; sdraiarsi alla meglio sopra al sedile e lasciare che il treno lo porti fin dove vuole, senza lasciare a lui di preoccuparsi più di niente.
Qualcosa sta succedendo, pensa Tonio, non posso farci nulla, le cose accadono senza che nessuno possa interromperle. Sente anche la voglia di piangere, senza che ci sia un vero motivo per farlo. Toglie la mano dagli occhi, guarda per un attimo quella campagna e quelle case che corrono, nel mezzo del niente, che vanno chissà dove, e prova una sottile vertigine. Poi si fa prendere del tutto da quel panorama, si incolla al finestrino, osserva le colline lontane, pensa alle persone ferme che magari vedono il treno passare, e lui dentro, dietro quel vetro.
Tonio prova un grande malessere, forse vorrebbe che tutto improvvisamente si fermasse, desidera fortemente essere già a casa, con la sua mamma, oppure addirittura tornare al Centro, e ricominciare a parlare ancora con il dottore, riflettere meglio sulle sue domande, provare a dargli delle risposte ancora migliori di quello che ha sempre fatto. Poi si gira, torna di nuovo a rannicchiarsi sopra al sedile. Ma neppure la ragazza laggiù è più al suo posto, non c’è, si è spostata, forse è andata via: no, non se n’era neppure accorto, ma lei adesso è li, accanto a lui, proprio vicino, e adesso lo guarda e gli sorride, gli dice di stare tranquillo, e che va tutto bene, e che la prossima fermata sarà proprio la nostra, gli spiega; potremo scendere assieme, gli dice, e ritrovare in un attimo la mamma.


Bruno Magnolfi

venerdì 28 novembre 2014

Adattamenti.

            

In quel quartiere, oltre la piazza con gli alberi e le panchine tra le aiuole, non c'è proprio nient’altro, se non quelle file di case intorno, a due o tre piani, quasi tutte simili, in certi casi con un minuto giardinetto sul davanti. Luciana va a sedersi quasi ogni giorno sopra una di quelle panchine; si porta il libro, legge qualche pagina, si guarda attorno certe volte, e se trova qualcuno che conosce scambia volentieri anche due chiacchiere.
Ha abitato da sempre in quella zona, ed ha visto tanta gente arrivare fino lì, ed anche andarsene; e pure botteghe e negozietti che sono stati aperti e che ora non ci sono più. Ma lei rimane seduta, con le sue maniere, le sue abitudini; e certe volte si chiede cosa mai farebbe se non ci fossero quelle case, quegli alberi, le aiuole e le panchine, tutto quel semplice arredamento di quartiere, quegli oggetti quasi suoi, e anche di tutti, naturalmente, ma che lei conosce così bene. 
Avrebbe tanto voluto che le autorità avessero sistemato un monumento in quella piazza, qualcosa proprio al centro, tra quei pochi alberi, e che abbellisse tutto quanto dandogli importanza. Ne aveva anche parlato con qualcuno, Luciana, con quegli anziani che frequentano le panchine insieme a lei quando il tempo è bello, e parlandone si era convinta che le sarebbe tanto piaciuto un grande oggetto che raffigurasse la perseveranza, come se la resistenza alla modernizzazione e ai cambiamenti di tutto quel quartiere, fosse un elemento da riconoscere, e forse da simboleggiare. Si, si, avevano detto tutti, e lei si era sentita sempre più convinta di quella scelta, tanto quasi da aspettare che da un giorno all'altro iniziassero i lavori.
Invece non è mai successo niente in quegli anni, e tutto alla fine è rimasto esattamente nella medesima maniera. Ma Luciana ha iniziato a pensare un po’ per volta che quella mancanza di cambiamenti fosse essa stessa un monumento: non c’è bisogno di far risaltare quanto rimane costantemente uguale in questa zona, ha detto già a qualcuno dei suoi conoscenti. Queste aiuole, questi alberi che invecchiano, sono loro un vero monumento; le case, i marciapiedi, la forma della piazza, tutto quanto ciò che prosegue a conservare l’identità del luogo, proprio il suo spirito.
Qualcuno le ha anche dato ragione, tanto per farla più contenta, ma altri hanno alzato le spalle, e in due o tre le hanno voluto spiegare che quel quartiere non aveva proprio niente per cui essere invidiato. Luciana se n’è risentita, perché a lei pare quasi impossibile che si possa pensare cose di quel genere. Così è tornata a casa, si è chiusa dentro, e provando una malcelata stizza, ha deciso di non frequentare almeno per qualche giorno quelle panchine della piazza.
Poi non ha più resistito, e c’è tornata, però muovendo i piedi con lentezza, quasi un po’ svogliatamente. Già da lontano si è accorta che qualcosa era diverso, ma neanche a quel punto si è affrettata. Ha atteso, conservando lo sguardo sul verde delle aiuole, di vedere bene coi suoi occhi quanto era accaduto. Un albero, di quelli più grossi, forse malato e pericolante, in quei pochi giorni era stato abbattuto e rimosso dai giardinieri, fino a lasciare al suo posto un vuoto che improvvisamente a lei è parso quasi terribile. Luciana allora si è seduta sopra la sua solita panchina, è rimasta immobile e pensierosa per qualche minuto, ma poi ha estratto dalla borsa il suo libro, lo ha aperto, ed ha iniziato a leggere. Succede, ha detto più tardi ad un conoscente che passando davanti le ha fatto notare quanto era capitato.

Bruno Magnolfi


lunedì 24 novembre 2014

Convinta interpretazione.

            

Mi sento sereno, dice il secondo mentre tutt’e due camminano velocemente verso la barca. Il piccolo molo ricoperto di legno marino scricchiola leggermente mentre raggiungono l’attracco giusto; la giornata è bella, c’è calma di vento. Il primo procede in silenzio, poi sale in barca, l’altro lo segue, lui accende il motore, molla l'ormeggio. C'è una debolissima onda lunga mentre si allontanano dal piccolo porto, che assieme al ronzio del motore sembra calmare i pensieri e rendere tutto più facile. Solcano senza fretta un paio di miglia di mare, prendono le mire su alcuni punti fermi che ancora si vedono a terra, poi dopo circa mezz'ora riescono a triangolare sul giusto braccio di mare, quello precedentemente deciso. Calano l’ancora, e poco dopo anche le lenze, pur restando quasi in un religioso silenzio, scambiandosi appena qualche gesto, ed infine, mentre lo scafo ha finito di posizionarsi con la prua contro quella leggera bava di vento, loro due si mettono seduti e in attesa.
Si dicono ancora qualcosa sulla bella giornata, poi il secondo, dopo un altro lasso di tempo, avverte una vibrazione, ed il primo lo incita a stare calmo e ad avere pazienza. Alla fine il pesce sembra tornargli all'attacco dell'esca, ed il secondo gli assesta un leggero strattone, quindi tira su recuperando con calma la lenza e tenendo sapientemente il filo in tensione.
Loro due vanno avanti ancora per un paio d'ore in questa maniera, ed in tutto tirano fuori dall’acqua appena cinque o sei tra spigole e orate, tutte di taglio piuttosto piccolo, quindi decidono che non è la giornata giusta, ne hanno abbastanza e che forse è ora di rientrare. Si è messo un po' più di vento adesso, la barca si muove su qualche onda più alta. Il primo, mentre passano sullo specchio di mare davanti al molo, dice che tutto sommato si è stufato di giornate come quella, il secondo annuisce, anche se sembra aver conservato ancora qualche entusiasmo rispetto all'altro.
Ormeggiano al solito attracco, spengono il motore e controllano che tutto sia a posto, poi mettono i piedi sul molo. Il primo dice al secondo di prendersi lui quel poco di pesce che hanno pescato, l’altro annuisce, quindi si separano al parcheggio nei pressi delle auto, e se ne vanno ognuno per conto proprio.
Qualcuno li ha seguiti, sin dal momento in cui sono usciti in mare, osservandoli con attenzione mediante anche un grosso binocolo, ed adesso che sono rientrati si è segnato sopra un quaderno gli orari e tutto quanto ha potuto esaminare, quasi come fossero quelli degli appunti preziosi. Qualsiasi cosa si può analizzare, pensa adesso. Ogni più piccolo dettaglio risulta sempre scomponibile in altri elementi più piccoli, fino a perdersi in risultati che presumibilmente non riescono neanche più a tenere conto di un’intera vicenda.
Poi si alza dalla sedia accanto alla vetrata su cui è stato seduto fino ad allora, mette via i suoi appunti, ed infine esce dalla saletta del locale dove è rimasto per tutto il tempo. Camminando riflette che la realtà è qualcosa che non sta per forza dentro alle cose che si riescono a vedere, quanto negli interstizi, nella maniera come si strutturano gli eventi, pur essendo qualche volta minuti ed ininfluenti come quelli a cui ha appena assistito.
Scriverà un articolo su quella semplice battuta di pesca, pensa ancora; ed analizzando quello che ha visto giungerà forse a capire e a spiegare i motivi per cui il primo ed il secondo pescatore probabilmente non usciranno più insieme per mare. Ma quello a cui si dovrà arrendere è il fatto che nella sua ricostruzione metterà per forza anche qualcosa di sé, della sua interiore maniera di concepire tutte le cose, e magari starà forse proprio in questo aspetto il tratto più convincente.


Bruno Magnolfi

martedì 18 novembre 2014

Diversi nemici.

          

Qua attorno ci sono sicuramente i nemici, dei pazzi assassini, dice lui sottovoce parlando tra sé, mentre affila il viso strabuzzando leggermente i suoi occhi, quasi a mostrare la maschera proprio di coloro che teme. Magari quelli mi osservano nell'ombra, senza essere visti, ed aspettano soltanto il momento migliore per colpirmi alle spalle. Non ho paura, dice ancora con convinzione, con voce adesso più forte, perché ho la piena consapevolezza che tutti quanti non siano altro che dei semplici vigliacchi, e non appena saprò dimostrare che riesco a tener testa alle loro stupide azioni, fuggiranno tutti a gambe levate per tornarsene diritti da dove sono venuti.
Mettendosi ad osservarlo, lo si può notare muoversi nervosamente lungo il corridoio, in genere restando sempre lontano dalla finestra sul fondo, come fosse quella la fonte dei pericoli, e quando passa davanti al piccolo specchio appeso sul muro, si capisce che evita persino di guardarsi, proprio perché sa che là dentro, in tutte le immagini riflesse, si possono annidare proprio alcuni degli elementi che lui cerca il più possibile di evitare.
Sto benissimo, dice subito ad un anziano vicino di casa le poche volte che quello va da lui per sincerarsi sulle sue condizioni. So difendermi, sostiene, ed ho intenzione di guardare dritto in faccia chiunque arrivi fin qui ad affrontarmi. L'unico problema sono questi angoli oscuri, gli anfratti, i nascondigli  insidiosi che tengono celati alla vista i veri pericoli infidi, i nemici, gli individui assetati di sangue.
Prima di aprire la porta di casa all’inquilino che abita al suo stesso pianerottolo, e che ormai è l’unico ad andarlo a trovare, mette sempre in opera mille stratagemmi, cercando dapprima di capire se sia davvero la persona che conosce quella che gli bussa alla porta, e poi se per caso non sia accompagnato da qualcun altro; e quando infine lo lascia entrare, si vede senz’altro che non ne è del tutto contento.
Per prudenza o circospezione lo tiene in piedi nel corridoio, in quei pochi metri quadrati dove lui stesso trascorre la maggior parte del tempo. Ho avvertito anche stamani i sottili rumori che provocano gli assassini, gli dice. Strisciano chissà dove, cercano di entrare dalle finestre, magari di farsi largo tra la gente comune per cercare la vittima giusta. Ma io lo so che sono loro il vero nemico, dobbiamo fronteggiarli con tutte le forze che abbiamo. 
Il vicino lo ascolta, poi gli rivolge delle domande banali, e alla fine va via, raccomandandogli come sempre di bussare alla porta, nel caso avesse bisogno di qualcosa. Lui chiude subito l’uscio alle sue spalle, poi controlla con attenzione ogni angolo della cucina e della camera da letto, prima di tornare nel corridoio. Resta fermo in ascolto per qualche minuto, nel caso avvertisse dei rumori sospetti, poi alla fine si siede sull’unica seggiola.
Lo specchio è ancora al suo posto: lui è quasi tentato di girarlo dalla parte del muro, pur di non doverlo più neanche vedere, ma darebbe così la possibilità a tutte le immagini contenute là dentro di nascondersi comodamente alla vista. Così lo copre, semplicemente, mettendoci un asciugamano sopra e quindi girandolo tutto attorno alla cornice. Poi aspira l’aria con maggiore soddisfazione. Nessuno uscirà da là dentro almeno stasera, dice tra sé; devo riuscire a tamponare le possibilità del nemico, sbarrargli la strada, rendergli impossibile qualsiasi comportamento. Solo così sarò sicuro di non avergliela mai data vinta.


Bruno Magnolfi

domenica 16 novembre 2014

Parole senza spessore.

            
            Mario è un uomo. Se gli guardi le mani ti accorgi che non le tiene quasi mai a riposo, e che il suo sguardo è vigile, sempre sulla difensiva, pronto a schivare eventuali attacchi della quotidianità. Puoi anche seguirlo nei suoi innumerevoli giri che compie mentre affronta tante strade diverse, anche se alla fine frequenta sempre i medesimi luoghi, ed accorgerti poco per volta che la sua evidente insicurezza sembra contrarsi o distendersi proprio a seconda dei mutamenti che sopraggiungono nei suoi itinerari.
            Qualche volta entra dentro un noto caffè, Mario, un affollato locale del centro: là dentro si fa accompagnare sempre da una certa signora; normalmente loro due si siedono, si lasciano servire del tè oppure degli aperitivi, e parlano in genere delle proprie difficoltà, e di quello che forse per ognuno di loro sarebbe più giusto da fare, anche se poi generalmente mai niente cambia nei comportamenti che hanno adottato in funzione di tutto il resto che li circonda. Quando escono da quel luogo comunque, appaiono sempre abbastanza soddisfatti, anche se è evidente come non siano riusciti una volta di più a prendere alcuna decisione importante.
            Mentre passeggiano in attesa dell’ora di rientrare, lei certe volte gli dice: Mario, dobbiamo essere maggiormente realisti, comprendere che le cose sono in una certa maniera, e con tutto l’impegno che possiamo impiegarci, non riusciremo certo noi a farle cambiare. Lui scuote la testa, non la guarda neppure, dice soltanto che non è proprio certo con questo spirito che si possono affrontare le avversità. Poi però riconosce che lei forse ha ragione, e che probabilmente è giusto essere più concreti e guardare tutto con maggiore obiettivo distacco.
            A lui piace spingersi a volte fino alla sponda sinistra del fiume, restare appoggiato alla spalletta lungo la strada per osservare l’acqua che scorre sotto il suo ponte preferito, illuminato alla sera da luci calde e giallastre sul fiume grigio e scuro come l’inchiostro, per poi ritornarsene sui suoi passi rinfrancato da quelle immagini così rassicuranti e complete. A Mario piace la solitudine, sostanzialmente, anche se in certi casi si ferma a parlare con qualcuno che passeggia proprio come lui, senza avere mai una meta precisa.
            Non tutto è perduto, dice Mario allora con un sorriso: possiamo ancora impegnarci e tenere in pugno le cose; l’altro non gli risponde, non c’è alcuna necessità di parole a fronte di quei pensieri che vagano dentro la testa. E’ sufficiente lasciarsi un saluto, un gesto qualsiasi che definisca una stessa veduta, forse addirittura una momentanea complicità, quasi una stessa maniera di immaginare come saranno le cose domani, sempre che avvenga un cambiamento apprezzabile.
            Rientrare è sempre un dolore: qualcosa si è concluso ormai anche stasera, pensa Mario; però ho molte speranze per la giornata di domani, riflette; qualcosa dovrà pur accadere, e certamente saprò tener testa a quanto si presenterà come nuovo, insieme a tutto ciò che avrà il noto sapore di vecchio. Non ci sarà nemmeno troppo da preoccuparsi, dice tra sé: tutto quanto potrà mai avvenire, sarà sempre qualcosa che avevo già immaginato, qualcosa di cui ero quasi in attesa, proprio come se ogni possibile variazione possa soltanto restare all’interno di un quadro finito, completo di ogni particolare, appeso al muro, incorniciato da tutte le nostre insignificanti parole.


            Bruno Magnolfi    

martedì 11 novembre 2014

Niente da fare. 2.

            

La donna percorre tutto il corridoio lasciando leggermente scandire dai tacchi delle scarpe i suoi passi, e guardandosi attorno; l'uomo, con atteggiamento più remissivo, si limita a seguirla. Alla fine c'è una stanza con un cartello che definisce la sala d'attesa, dove al momento non si vede ancora nessuno. I due si siedono, in silenzio. Lei dice subito che secondo il suo parere dovrebbero bussare magari senza insistenza a quell'unica porta chiusa che si apre nella parete di fronte alla loro fila di sedie, e così far presente che sono già arrivati per l’appuntamento, ma l'uomo le dice un po’ sottovoce che probabilmente è meglio restare seduti ed attendere, semplicemente aspettando che vengano chiamati. La donna non replica, anche se non è del tutto convinta, così poco dopo si alza e si avvicina alla porta nel tentativo almeno di decifrare i lievi rumori che si odono giungere a tratti dall'interno, ma poi, raccolta una vecchia rivista da un tavolinetto, torna a sedersi. Vedrai, non ci sarà da aspettare ancora per molto, fa lui. Lei lo guarda per un attimo senza replicare, forse pensa qualcosa di diverso, ma non si esprime.
Poi si sentono dei passi lungo il corridoio, lo stesso che hanno percorso loro due poco prima, quindi dei semplici rumori come di una serratura e di una porta che viene aperta. L'uomo si alza, si affaccia sul corridoio, poi rientra. Non c’è nessuno, dice, quasi con una certa soddisfazione. Poi dice: sei sicura di avere portato con te tutte le carte? Certo, risponde la donna, ho nella borsa tutto quanto quello che serve.
Arriva una signora, chiede con un lieve sorriso se hanno già cominciato a chiamare, la donna le dice di no guardandola fissa e scuotendo leggermente la testa. Meno male, dice la signora mentre si siede di fianco alla coppia, perché sono un poco in ritardo. La donna allora, tirando fuori i suoi incartamenti, le chiede per quale ora le era stato fissato l'appuntamento, l'altra dice le tre e mezza, e l'orologio a parete, presumibilmente preciso, segna quasi le quattro.
Stando così le cose, dice l'uomo, ne avremo per un bel pezzo: noi abbiamo appuntamento per le quattro ed un quarto, ma se non hanno ancora iniziato a chiamare, la faccenda si allunga. Forse bisognerebbe bussare, dice insistendo la donna, ma la signora arrivata da poco la frena, sostenendo che ha già sentito dire che là dentro a volte allentano i tempi con qualche cliente. Ci predisponiamo subito male se arriviamo a mettere fretta alle loro cose, dice con un altro sorriso. Restano così tutti in silenzio per qualche minuto. Ed anche dietro alla porta sembra non ci siano più rumori, mentre l’attesa continua a protrarsi.
Arriva un uomo dal solito corridoio, chiede se sia lì che riceve un certo dottor Bertelli, ma i tre scuotono la testa. Ad essere sinceri, dice la donna, abbiamo un appuntamento, ma non sappiamo esattamente con chi. L’uomo torna sui suoi passi, si sente che sta telefonando a qualcuno lungo il corridoio, usa poche parole, poi alza subito la voce, dice qualcosa sgarbatamente, infine chiude la chiamata e poi se ne va.
I tre rimasti in sala d’attesa adesso si guardano, la donna si alza, va verso la porta, bussa leggermente come per non disturbare, ma da lì non giunge alcuna risposta. Insiste, e alla fine arriva una persona giovane, con l’aria scocciata, dice che oggi non è giornata di ricevimenti, hanno sbagliato la data per l’appuntamento, devono ritelefonare per fissarne una nuova, poi torna a richiudere la porta. I tre non si dicono niente, si muovono sconsolati lungo il corridoio quasi per andarsene, ma ecco che torna l’uomo di prima, passa loro accanto e va ad infilarsi nella sala d’attesa e poi dentro la porta, senza neppure bussare. Dopo un attimo esce: è chiuso, dice loro senza neppure guardarli; per oggi non c’è proprio niente da fare.


Bruno Magnolfi

venerdì 7 novembre 2014

Colpevole.

            

Spesso mi trovo arreso, quasi messo in condizioni di non nuocere. Mi guardo ancora attorno almeno un’altra volta prima di rientrare in casa ed andarmene definitivamente a letto, proprio perché ancora spero di veder giungere qualcuno che pur all'ultimo momento riesca ad arrivare finalmente per gridare che sono salvo, che la mia grazia è firmata, e che infine è stata riconosciuta ufficialmente e da tutti la mia innocenza. Sorrido delle mie illusioni, mi spoglio, mi corico, stringo le braccia nel tentativo di sentirmi meno solo, e attendo il sonno di ogni notte come fosse il solo stato fisico capace di farmi scordare almeno per qualche ora la realtà.
Giro nervosamente per casa, durante il giorno; poi qualcuno suona il campanello. Apro la porta: davanti a me c’è una persona che non ho mai visto, balbetta qualche cosa in merito agli sviluppi energetici, all’evoluzione tecnologica, al tenersi correntemente aggiornati come un dovere di tutti, e non solo per se stessi, dice, ma in funzione semplicemente della collettività. Annuisco, lo faccio entrare. Lui è subito perplesso, forse gli capita di rado che qualcuno gli dica di accomodarsi, che gli offra una sedia, un bicchiere d’acqua, l’ascolto e l’attenzione che probabilmente merita.
Lui parla, io resto in silenzio mentre lo guardo. Infine mi alzo dalla sedia, cerco di spiegargli sinteticamente come si stia ritrovando davanti a sé una vera e propria preda del sistema che tende a neutralizzare qualsiasi pensiero divergente. Lui medita, sembra comprendere qualcosa, fino a mostrare di sentirsi sempre meno a proprio agio. Mi interrompe a un certo punto, dice qualcosa attorno a degli obblighi che sostiene di avere con una compagnia, ma io gli dico a mia volta che non ha alcuna importanza tutto questo, e che lui può divenire fin da subito il formidabile anfitrione della mia causa, quella che assurdamente mi vede colpevole senza quasi alcuna possibilità di appello.
L’uomo va verso la porta, io non lo trattengo, in fondo abbiamo cercato di spiegarci vicendevolmente le nostre ragioni, penso, e che poi ognuno di noi non sia riuscito a convincere l’altro, in fondo è soltanto un dettaglio superficiale, una possibilità anche largamente già prevista. Se ne va con modi sgarbati, ma mentre è ormai lungo le scale dice a voce alta senza guardarmi che forse ciò che mi sta capitando me lo sono addirittura meritato, e questo evidentemente appare subito l’elemento più importante tra tutti gli altri.
Mi metto seduto, una volta solo, e cerco di riflettere a quanto è stato detto. Forse ha ragione, penso, forse davvero ho colpa di qualcosa in tutta la faccenda, anche se non mi sono mai accorto di niente. Perché mai proprio io, penso mentre sento già montarmi la febbre. Forse dovrei ribellarmi a questo stato di cose, che so, magari fuggire, allontanarmi per sempre da questa situazione.
Tornano a suonare il campanello: sono le guardie, immagino, adesso non c'è più altro tempo, comprendo al volo, ed il giudizio finale ormai è stato dato, le mie ragioni sono state del tutto calpestate, ed è sicuro che a rimetterci per tutti sarò soltanto io. Invece è la mia vicina, una signora che abita al mio stesso pianerottolo, dice che ha sentito urlare per le scale, ed adesso vuole soltanto sapere se ci sono per caso dei problemi. Tutto a posto, la rassicuro subito, la realtà è composta solamente di tante piccole sciocchezze alle quali spesso diamo semplicemente uno smisurato credito, le dico. Adesso forse tutto appare contro di me, le spiego ancora; ma probabilmente è appena sufficiente lasciar trascorrere un tempo adeguato, e tutto all' improvviso si sistemerà, proprio come se qualunque mio delitto vero o presunto non si fosse mai verificato. Perché in fondo, le dico con serietà e guardandola negli occhi: io non ho fatto proprio niente.


Bruno Magnolfi

mercoledì 5 novembre 2014

Piatto freddo.

          

Terminato il suo caffè, lei appoggia lentamente la tazza sopra al piattino che ha proseguito a tenere nell'altra mano, prendendo solo una piccola pausa prima di sollevarsi dalla poltrona di stoffa su cui è rimasta seduta per tutto il tempo, e sistemare infine tutto quanto nel piccolo vassoio sul tavolino da fumo alle sue spalle, costringendosi così a lanciare un breve sguardo verso di lui. Forse dovremo uscire stasera, dice l’uomo senza grande convinzione ed evitando anche di guardarla direttamente. Lei torna a voltarsi verso la vetrata sotto la quale, sei piani più in basso, l’incrocio con uno dei più trafficati viali cittadini prosegue a riversare sull’asfalto grandi cortei di automobili generati a getto continuo dai tempi organizzativi dei semafori. Potremo andarcene ad un cinema, continua lui come parlando tra sé. Poi si muove, con indifferenza cambia di nuovo canale al grande schermo televisivo, con il volume azzerato, posizionato in un angolo, apprezzando, come d’altronde è suo uso, il silenzio quasi irreale di quella sala insonorizzata da robusti doppi vetri. Va bene, fa lei senza variare espressione, sai già quale film andare a vedere? No, purtroppo, risponde l’uomo; però potresti scegliere tu qualcosa di buono, dice senza alterare la leggera ironia.
Non so neppure che vestito indossare, fa lei riferendosi alla serata, ma senza parlare troppo sul serio, e peraltro come riflettendo tra sé. Potremo adesso mangiare velocemente qualcosa di freddo qui in casa, dice lui con un improvviso guizzo di sfumato entusiasmo; e una volta usciti dal cinema completare la cena in una tavola calda. Lei allora si alza definitivamente, solleva il vassoio e con calma lo porta in cucina. Quando torna, lui si è seduto ed ha spento definitivamente lo schermo. Potremo andarcene al Principe, dice; così, facendo giusto due passi, evitiamo anche di muovere la macchina dal garage. Va bene, risponde lei; non so che pellicole proiettano stasera, ma in ogni caso qualcosa andrà bene sicuramente.
Lei poi si accende una sigaretta e torna lentamente a sedersi sulla stessa poltrona di prima, lui intanto si alza e va in cucina, e quando torna sostiene che può velocemente preparare dei sandwich al formaggio. No, non mi va, fa lei; preferisco magari dell’affettato, e in ogni caso è ancora presto, mi pare. D’accordo, fa lui. Poi controlla sopra al portatile il titolo dei films in programmazione al multisala, e gli orari delle proiezioni serali. Lei allora si tira su, ascolta l’elenco dei titoli commentando semplicemente che non le sembrano molto incoraggianti, poi torna ad osservare la sera incalzante fuori dalla vetrata.
Considerato tutto potremo cercare un film televisivo, dice lei senza neppure crederci troppo; e così restare in casa senza complicarci l’esistenza. Lui difatti non l’ascolta neppure, torna dopo un attimo ad accendere lo schermo televisivo, e guarda scorrere i titoli di un telegiornale. Va bene, ho capito, le fa: tiro fuori la macchina dal garage e faccio un giro da solo. Trovo una rosticceria e torno con qualcosa di pronto, ti va?
Lei lo guarda, si accende una nuova sigaretta, poi dice: ma non dovevamo andarcene al cinema? Lui allora alza leggermente il volume dello schermo televisivo, giusto per ascoltare con attenzione un servizio giornalistico, poi torna subito però ad azzerare il volume. Lei esce dalla stanza, forse va in bagno, o a scegliere un vestito per uscire, oppure a guardare cosa c’è nel frigorifero. Quando torna sta semplicemente ridendo: ha un grosso pezzo di formaggio in una mano, e lo tiene vicino alla bocca, come volesse azzannarlo. Anche lui sorride, così si muove leggermente restando in piedi, ma infine torna a guardare lo schermo, in silenzio.


Bruno Magnolfi

martedì 28 ottobre 2014

Lungo il sentiero degli altri.

            

Certe volte il ragazzo avvistando qualcuno che conosce mentre cammina per strada, d'istinto cambia marciapiede, ma soltanto per evitare che quello lo saluti in maniera troppo esuberante, o che addirittura gli chieda qualcosa, magari del suo andamento scolastico, o dei suoi amici, o anche di altre cose del genere. La sua non è vera asocialità, soltanto non gli va di affrontare con estranei argomenti che profondamente sente soltanto suoi. Quando infine va al solito ritrovo dopo la scuola e incontra Nadia insieme agli altri, spesso finge per scherzo di non accorgersi neppure di lei fino quasi all'ultimo, quando ormai è lì, accanto a sé. Come va, le chiede in maniera un po’ impersonale, ma con modi seri, anche se poi le sorride mostrando tutta la complicità che avverte solamente con lei, e di cui lei ha sicuramente coscienza.
Qualcuno ha riferito a sua madre che lui è un tipo strano, ma al ragazzo non importa minimamente del giudizio degli altri. Tira diritto, sa che la sua vita sarà difficile con il suo carattere, per questo quando incontra Nadia cerca di tirare fuori la sua personalità più estroversa. Lui osserva molto tutte le cose che gli scivolano accanto, ma lei gli dice spesso che al contrario pare sempre indifferente a tutto quanto intorno a sé. Non ha alcuna importanza, spiega il ragazzo: le cose bisogna sentirle dentro, dobbiamo essere onesti con le nostre sensazioni, il resto poi va da solo.
Un pomeriggio si allontanano insieme dal solito ritrovo. Nadia racconta di sé, delle sue convinzioni: il ragazzo l’ascolta. Possiamo metterci assieme, le dice dopo un po’, anche se in fondo non sarà questa la cosa essenziale. Lei non comprende, si chiede cosa ci sia dietro a dei discorsi del genere, ma lui le dice che è soltanto questione di mezzi, loro due, l’uno per l’altra, dove in fondo lo scopo vero è semplicemente il futuro che avranno. A lei sembra bastare per il momento, sa che lui forse è il più sincero di tutti dicendo così, anche se vorrebbe sentirsi dire altre cose, forse più usuali, forse però anche meno vere.
Al ritrovo insieme agli amici nessuno ormai fa più caso a Nadia ed al suo ragazzo: i rapporti si sono modificati, ognuno avverte delle importanti variazioni, anche se finge indifferenza: tutti adesso è come se fossero diventati, nel loro teatro del pomeriggio, delle semplici comparse di una scena dove lui e Nadia sono praticamente attori e comprimari. Loro due di fatto quasi non vedono più nient’altro: parlano, si spiegano, hanno la profonda e continua necessità di scambiare tra loro anche i pensieri più inconfessabili. Intorno è proprio come se non ci fosse più niente e nessuno.
Infine qualcosa si rompe, è inevitabile. Nadia si dispera, forse anche lui, anche se non sembra affatto. Non ci sono spiegazioni, si è interrotto un meccanismo fragile, retto solamente su poche cose. Il ragazzo pensa che non poteva essere altrimenti, e prosegue ad attraversare la strada quando avvista qualcuno con cui non vuole parlare. Poi riflette che il suo è forse un atteggiamento troppo omogeneo, quasi integrale nella sua mancanza di elasticità, così ormai privo di qualsiasi modifica. Allora cerca Nadia per riferirle almeno quanto è riuscito a riflettere, ma lei è già volata: i suoi pensieri di fatto sono già dietro un altrove che a lui probabilmente ora sfugge, lungo un sentiero che comunque non è più il suo, e lungo il quale, se anche volesse avviarsi, si sentirebbe soltanto un estraneo. Per questo lascia perdere, anche se sa che la sua è una vera sconfitta.


Bruno Magnolfi

mercoledì 22 ottobre 2014

Esperienze ordinarie.

            
            Entro nel piccolo ufficio, dopo aver atteso quasi un'ora con il foglietto numerato, mi siedo su una delle due seggiole, e con disinvoltura accavallo le gambe mentre mi assicuro, quasi per abitudine, che la mia gonna non mostri troppo. L’impiegato di fronte neppure mi guarda, prosegue a scartabellare qualcosa, anche se dopo un attimo dice buongiorno, saluto al quale naturalmente contraccambio subito risposta. Attendo. Che deve fare, mi fa, dopo un’altra porzione di tempo e ancora senza guardarmi. Protocollare, gli dico posando sopra la scrivania i miei due o tre fogli spillati. Non è questo l’ufficio giusto, mi fa. Poi alza il telefono, parla con il portiere, dice qualcosa nervosamente. Quando abbassa chiedo con gentilezza allarmata maggiori informazioni.
            Dice l’impiegato che, certo, per il mio caso lui può fare eccezione, quasi poi fosse un grande favore, quindi allunga una mano e prende i miei fogli. Senza neppure guardarli ci ripensa e subito si alza; dice: scusi un momento, quindi nervosamente esce con rapidità dalla stanza. Da sola, avrei quasi voglia di mettere all’aria e confondere tutti i suoi fogli ammucchiati sul piano del tavolo, però  mi controllo. Attendo. Quando l’impiegato rientra mi alzo a mia volta, quasi per fargli vedere che in fondo posso fare anche a meno di lui e delle sue sgarbate maniere. Lui invece si siede quasi senza fare caso a tutto il resto, ed inizia col dire che è un tipo preciso, che non gli piacciono le cose fatte in maniera approssimativa, e altre frasi del genere. Dico che ha ragione cercando velatamente di dare una veste ironica a quanto a me sta avvenendo, ma lui tira diritto con convinzione e riprende in mano i miei fogli.
Mi chiede, senza muovere gli occhi da sopra lo schermo che in parte gli copre la faccia, se sia proprio io la persona che sottoscrive quei documenti. Rispondo di si senza aggiungere altro, e forse vorrei mettermi a sbuffare, tanto mi sta pesando la situazione. L’impiegato scrive qualcosa ticchettando sulla tastiera, infine una stampante alle sue spalle si mette in funzione per sfornare un semplice foglio. Lo prende, lo guarda, lo timbra, avvalora la carta con un umile frego.
Ci vuole la marca, mi fa. Non ce l'ho, dico io. Poteva dirlo subito, che lo voleva su carta semplice, dice lui. Mi si arrossano le guance, lui strappa il primo foglio e scrive qualcos'altro con la sua tastiera. Dalla stampante ne viene fuori una carta identica alla prima, e anche questa lui la timbra e ci fa sopra un semplice rigo con la sua penna. Devo pagare? gli dico conservando buone maniere. Certo, fa lui, e mi dice subito quanto. Lascio una pausa. Non ho i soldi, gli dico. L’impiegato adesso mi guarda allibito: sono soltanto pochi spiccioli, sta sicuramente pensando; com’è possibile andare per uffici senza nemmeno lo stretto necessario?
Aspetto accada qualcosa, lui si alza, esce dall’ufficio; poco dopo rientra: prenda questo foglio, mi dice; arrivederci. Intanto ho trovato nella mia borsetta i soldi che mi aveva chiesto, gli dico con noncuranza, e con un semplice gesto faccio tintinnare delle monete sopra al piano del tavolo, mentre raccolgo con calma tutti i miei fogli. Attendo. Lui forse con gli occhi vorrebbe incenerirmi, io mi alzo, dico arrivederci, sistemo la gonna prima di uscire proprio come se stessi abbandonando una toilette pubblica. Infine guadagno il corridoio, ma subito torno indietro e mi riaffaccio un momento alla stanza: grazie, dico; è stato molto gentile.


Bruno Magnolfi

lunedì 13 ottobre 2014

Prospettiva personale.

            
                      
            Se devo essere obiettivo, trovo che non sia neppure troppo comoda questa poltroncina che mi sono scelto. Però è senz’altro la mia sedia, e indubbiamente ci passo sopra seduto parecchio tempo, soprattutto perché credo che in questo mio angolo di stanza sia racchiuso molto, se non tutto, del mondo che desidero. I miei familiari fanno ogni sforzo per scuotermi e per indurmi ad abbandonare questa postazione privilegiata, ma io tengo duro, e resto qua disinteressato verso qualsiasi cosa dicono.
            Non si può neppure guardare uno che si impigrisce così, e lascia che il tempo gli scorra accanto restando indifferente quasi a tutto, mi fanno con voce grave. Lascio correre: fuori, di fronte ai vetri di questa finestra, c’è un condominio di terrazze e tante altre finestre, con gente che stende i panni ad asciugare, fuma qualche sigaretta, prende aria, oppure telefona, smanettando come fosse sopra al palcoscenico. Mi basta questo. Dalla mia sedia riesco ad osservare tutto quanto, e con una matita disegno ciò che vedo, almeno quando non sono impegnato a pensare qualcosa, oppure a rileggere uno dei miei libri preferiti.
Non farai mai niente di buono, mi dicono. Eppure cerco di non dare fastidio a nessuno restando seduto in silenzio. Certe volte mi alzo, nelle giornate afose, ed apro la finestra. I miei parenti non vogliono, hanno sempre paura che getti qualcosa di sotto, che provochi dei danni a qualcuno che passa lungo il marciapiede. La richiudono in fretta, appena se ne accorgono, ed io lascio perdere quelle loro fisime, facciano pure quello che credono, penso, io non mi scompongo. Cerca almeno di evitare guai, mi ribadiscono; tutto questo solo perché una volta tirai un libro dietro ad un ragazzo che sopra al terrazzo faceva dei versi proprio contro di me.
Devi cercare di essere utile a qualcosa, mi spiegano certe volte mentre mangiamo tutti assieme. Annuisco, hanno ragione. Però se non ci fossi io ad osservare le piccole cose che avvengono nel condominio di fronte, nessuno ci farebbe caso. Non posso neppure dirlo, perché risponderebbero in coro che le mie sono solo delle scempiaggini, eppure io penso spesso che nelle piccole cose che ci circondano si annidi molto della verità.
Torno al mio punto di osservazione, sopra della carta semplice tratteggio i miei vicini di casa, le loro fogge, le espressioni che assumono. Ne ho uno sportello pieno di questi miei disegni, attendo soltanto che nasca qualche controversia per mostrare tutto ciò che ho visto da questa sedia, sbirciando fuori da una semplice finestra. Forse davvero non sarà importante tutto questo, però a me sembra a volte di veder perfino scorrere l’esistenza di tutti davanti a me. Non è fondamentale, certo, ma a volte penso che sia proprio la vita ad essere così.

Bruno Magnolfi


            


            

mercoledì 8 ottobre 2014

Definizioni potenzialmente incerte.



Per esempio, non saprei dire cosa sia meglio fare in una giornata come quella di oggi, pensa Leo. Anche se non mi reputo il solito tizio pieno di incertezze e privo di punti di riferimento, so perfettamente però che il mio tempo, se non fosse scandito dagli orari classici del lavoro, del sonno, dei pasti, dei notiziari giornalistici della radio e della televisione, si mostrerebbe per me estremamente più complesso e indefinito. Certe volte mi trovo a parlare con qualcuno che mi svela la sua opinione su una cosa o sull'altra, ed io lo ascolto, qualche volta annuisco anche con una certa convinzione, ma spesso è come se mi trovassi costretto a pensare ad altre cose, pur continuando ad osservare attentamente chi ho davanti, tanto da restare alla fine sempre indeciso se confidare a quello anche il mio parere, oppure tenermelo soltanto per me, sempre che ne abbia davvero uno. Resto con il dubbio, riflette ancora Leo; come se in fondo niente di definito si profilasse davanti ai miei occhi. Potrei forse dire una cosa e sostenerla a spada tratta, penso; oppure spifferare con apparente sicurezza anche il suo opposto, e mostrarmene assolutamente convinto, anche se in genere lascio perdere tutto perché non trovo neppure grandi differenze tra quel certo parere, oppure quell’altro.
Leo, sento chiamare ad un tratto dietro di me, sempre nell'esempio; mi volto, e c'è una persona che forse mi conosce, anche se soltanto in maniera direi superficiale; eppure il tizio finge di avere addirittura qualcosa da spartire con la mia persona. Per educazione ricambio il saluto, pensa ancora Leo, proprio mentre mi siedo insieme allo sconosciuto sopra al sedile di questa corriera che mi riporta a casa. Non gli sorrido, neppure lo guardo, eppure so per certo che lui tra un attimo inizierà a dirmi tutte le sue cose e le sue opinioni nell’arco di questo pur breve viaggio. Rifletto, dice Leo; non posso fare altro, penso. Invece mi alzo, subito dopo, proprio mentre la vettura è gia in movimento, spiega in seguito Leo all'avvocato d'ufficio; e nello stesso tempo mi metto ad urlare, ma non perché sono convinto in qualche modo di ciò che sto facendo, quanto perché sento improvvisamente il bisogno di rompere questa normalità che mi attanaglia, che mi toglie quasi del tutto anche il respiro. Non so dove trovo la forza, dice Leo quasi con convinzione, però prendo questo tizio per la gola, e non per fargli veramente del male, quanto per essere sicuro che lui taccia, che la smetta una buona volta di dire tutte le sue stupide cose.
Ecco, sostiene Leo con un tono più pacato, non so neppure spiegare perché tutto quanto debba accadere veramente in questo modo, così come non so comprendere quelle persone che subito dopo mi hanno poi bloccato le braccia, e quelle parole assurde che tutti hanno immediatamente gridato contro di me; e poi quella denuncia, e le forze dell'ordine che mi hanno sequestrato e sbattuto qua dentro in malo modo. Non lo so, dice Leo. Forse non avevo tutto il diritto di difendermi, di porre una barriera, di mostrarmi incerto, senza un’opinione vera, come se all’interno di una realtà così piena di convinzioni, io non potessi mostrare finalmente di non averne alcuna, e soprattutto di non volerne avere?  Assurdo, dice Leo, adesso con voce estremamente chiara; anche se subito dopo sostiene di non saper decidere se sia questa oppure no la parola più definitiva su tutta quanta la faccenda.


Bruno Magnolfi

lunedì 29 settembre 2014

Ordinaria sanità.

            

Provo un dolore forte, invalidante, improvviso, dentro l' addome. Mi piego su un fianco, spengo la luce, stringo le mie viscere con uno sforzo, e dopo un attimo, nonostante tutto, il buio della stanza torna a darmi la momentanea sensazione di protezione avvolgente che cerco. Poi esco, indosso uno spolverino che copra la mia sofferenza e raggiungo la strada. Al parcheggio dei taxi salgo sul primo che trovo libero e chiedo immediatamente di portarmi in ospedale. L'autista mi osserva, forse pensa di me che io sia un tossico in preda ad una crisi di astinenza, in seguito però avvia il motore e ingrana la marcia. Immagino che tutto quello che vedo e che sento in questi pochi minuti siano le ultime volte di qualcosa che forse dovrò rimpiangere per chissà quanto tempo, magari anche per sempre. Il dolore è stabile, qualcosa di terribile sta accadendo sicuramente dentro di me, ma il panico iniziale sembra quasi che mi stia passando; d’altra parte sono convinto di fare la cosa più giusta, e questo mi dà subito sollievo. Dovrei forse telefonare a qualcuno, penso, avvertire gli altri di quanto sta succedendo, ma è quasi notte e il dolore che provo è così intimo che non saprei neppure spiegarlo.
Esco dal taxi, adesso mi trovo nei pressi del pronto soccorso, vedo la luce al neon all’esterno che lo segnala, mi dirigo da quella parte ed improvvisamente il dolore cessa del tutto. Vado avanti, c’è una panchina qua fuori, mi siedo. Una signora che non fa parte probabilmente del corpo medico, mi osserva mentre esce dalle porte scorrevoli. Aspetto. Lei mi dice che se devo chiedere qualcosa devo mettermi in coda, ed io alzo una mano lasciando in aria una risposta ambigua che mostra comunque la mia comprensione. Di fatto non so più cosa fare. Se cerco di andarmene e il dolore riprende potrei aver perso tempo prezioso. Se entro e mi faccio visitare non so neppure cosa spiegare ai dottori. Resto seduto, almeno per il momento.
Arrivano due autoambulanze quasi in contemporanea, roba grave, escono gli infermieri con le barelle e gli accorgimenti del caso, io guardo quanto succede e non riesco a decidere se ritenermi fortunato oppure no. Infine mi alzo, faccio due passi lungo questi giardinetti male illuminati, poi torno indietro e mi siedo di nuovo sulla panchina. La signora di prima ancora qua fuori torna a guardarmi.
Le dico che avevo un dolore incredibile fino a poco fa, ma adesso è passato, quasi come per un incantesimo. Lei non dice niente, la scelta di starmene qui è solo mia, lei non vuole interferire nelle mie cose. Penso di chiederle cosa farebbe al mio posto, e lei, quasi leggesse la mente degli altri, mi dice che forse una piccola visita da un medico non sarebbe da disprezzare. Annuisco, ma resto comunque ancora seduto qua fuori.
Infine, dopo altri dieci minuti, mi alzo, decido di entrare, anche soltanto per dare un’occhiata alle persone che ci sono là dentro, e come funzioni un servizio come questo. Le porte scorrono con un lieve fruscio appena mi avvicino, all’interno c’è gente e le luci sono forti e taglienti, mentre due infermiere in camice bianco si occupano di qualcosa dietro ad un semplice vetro. Le guardo con una certa distanza, ma mentre mi volto il dolore ripiglia e non posso far altro che cadere come uno straccio sul pavimento. Escono in due, mi prendono, mi sistemano rapidamente sopra una lettiga, io non so più se sono cosciente o mi sto soltanto immaginando la scena. Si aprono delle porte su un corridoio bianco, qualcuno dice delle cose vicino a me, ma non sento più niente: sono nelle mani di qualcun altro, posso perfino rilassarmi, nonostante il dolore. Chiudo gli occhi, va tutto bene, sono arrivato nel posto giusto.


Bruno Magnolfi

mercoledì 24 settembre 2014

Tempo perso.

            

Si riconosce subito, è quasi sufficiente sentirne la voce. Cammina per strada ed in molti si voltano per osservarlo; però è anche vero che altri lo ignorano, e spesso si comportano con lui come se fosse una persona qualsiasi. Non ha alcuna importanza, spiega Renato ad un microfono, credo in ogni caso di essere rimasta una persona semplice, in tutto questo tempo, e proprio non ci tengo ad essere sempre al centro dell'attenzione. Qualcuno si spinge a chiedergli come ci si sente ad essere così, ma lui sorride, si schernisce, ed in genere resta in silenzio. Poi si sposta, mostra di stare sempre impegnato, e sfugge normalmente a chiunque cerchi di trattenerlo. Ma alla fine puoi trovarlo all'ora di cena, da solo, nell’angolo di un caffè del centro all’ultima moda, mentre controlla il suo cellulare e sorseggia l’ aperitivo della casa.
La sua fortuna è stata una combinazione di cose, e poi soprattutto quella fotografia ben fatta, che ha stazionato addirittura per ore nei principali network della rete. Un successo così repentino è difficile da gestire, si dice in molti luoghi dove si sta molto attenti a cose del genere. Renato lo sa perfettamente. Deve approfittare del suo momento di celebrità, senza perdere un attimo, mostrare un volto spendibile anche per il futuro, piuttosto che bruciarsi in fretta; perché poi, con la stessa rapidità, potrebbe assolutamente ricadere, come spesso succede, e ritrovarsi come uno qualsiasi nell’oblio dell’anonimato. E lui ormai non potrebbe facilmente adattarsi ad una vita diversa da quella che adesso sta già assaporando. Certo, un’altra fotografia di successo potrebbe quasi renderlo personaggio immortale, ma non è così semplice.
In ogni caso lui si muove tantissimo nella città, gira nei luoghi dove si sa che staziona la gente che conta, forse sogna che qualcuno di loro gli chieda pubblicamente qualcosa, lo faccia parlare, lo introduca in qualche maniera negli ambienti di grido. Ha cercato persino di prepararsi per dare delle risposte argute e corrette, evitando la faccia di chi viene colto alla sprovvista, magari balbettando: bisogna sorridere, pensa, dare l’impressione di essere superiori a certe sciocchezze, dire le cose come se fosse la maniera più normale di stare con gli altri.
Logicamente nei primi giorni ci sono state delle interviste, ma in quelle Renato ha potuto soltanto essere né più né meno quello che è, non avrebbe mai potuto così rapidamente correggere le sue espressioni e la sua dizione da provinciale. Adesso però è il suo momento, si fa vedere davanti a qualche locale e tutti gli chiedono l’autografo, si fanno una foto con lui, magari gli chiedono qualcosa giusto per sentirne la voce. Quasi non si rende ancora conto di quello che gli sta capitando, e prima di andarsene a letto la sera, si guarda a lungo davanti allo specchio. Se almeno avessi studiato, pensa certe volte; potrei gestire ancora meglio la situazione, piuttosto che affidarmi a questi professionisti del settore che mi prendono un sacco di soldi. Ma forse è meglio così, riflette ancora: almeno non ho perso tempo.


Bruno Magnolfi

martedì 16 settembre 2014

Perso, improvvisamente.

            
            Diego è sicuro di quello che fa. Torna a casa e Lorenza non c’è, ma lui sa già perfettamente dove trovarla. Riflette velocemente attorno a qualcosa che ha letto negli ultimi tempi sulla violenza alle donne, ma gli viene soltanto da sorridere: lui non sarà mai uno di quel genere, anche se lei se n'è andata. Soltanto vuole vederci chiaro nelle cose, nient’altro. La piccola cartoleria dove lavora l'amica di lei è poco distante, cosi ci pensa su un attimo, sono quattro passi, ed è già là. Non si è vista, gli viene subito riferito, e a lui pare per questo di sentirsi improvvisamente uno stupido, così impacciato, con il berretto dentro una mano, e non è per nulla abituato a cose del genere. Forse ha fatto male ad andare fino al negozio, pensa uscendo, e allora gira per le strade senza neppure una meta. Vuole stancarsi, lasciare indietro qualcosa, ed anche riflettere, forse, ma la sua testa è vuota, non sa neanche capire dove stia il suo errore, semmai ce ne sia uno.
Incontra un amico, lo saluta svogliatamente, forse vorrebbe spiegarsi, ma non sa neppure da che parte incominciare. Si infilano nel primo bar poco distante, si fanno servire due birre, sorridono per qualcosa che non sanno neppure cosa sia; poi Diego spiega quanto è accaduto. L’altro gli parla subito male di tutte le donne, gli dice di non preoccuparsi, che qualcosa comunque succederà, le cose si sistemeranno, e che in breve gli verrà pure in mente un'idea. Lui se lo lascia dire, ma intanto dentro di sé sente profondamente la voglia di ribellarsi, mentre questo pensiero convive contemporaneamente con il bisogno che prova della sua Lorenza. Improvvisamente non è più sicuro di nulla, guarda l’amico, ma lo vede distante, gli manca tutto, come se adesso non sapesse neanche più dove andare.
Forse mi hanno detto qualcosa di falso, dice. Forse Lorenza era proprio lì, magari nel retrobottega, a sorridere delle mie perplessità, magari a ridere di me, di quel mio impaccio. Dice che non sa più neanche cosa pensare, ma l’amico gli dice d’un tratto di avere già immaginato che prima o poi sarebbe successo qualcosa del genere; lo dice sottovoce, ma con convinzione: ti comportavi male con lei ultimamente, gli fa. Diego si sente colpito nel vivo, spalanca gli occhi, riflette: forse è vero, ma non se n’era neppure reso conto. Quando tornano ad uscire sulla strada, Diego si guarda attorno, come se lei fosse lì, da qualche parte immobile ad osservarlo. L’altro lo nota, e lui, anche soltanto per questo, se per combinazione la scorgesse davvero in fondo alla via, sa che gliela farebbe pagare, anche se continua a ripetersi che non vorrebbe.
I due ciondolano un po’ fino all’angolo, non ci sono molte altre parole da dirsi, perciò si salutano, ognuno per sé, a rimettere assieme ciò che ancora resiste. Diego non ha voglia di tornarsene a casa, controlla il telefono, nessuna chiamata. Si stravacca su di una panchina e resta lì, mentre le luci della sera si accendono. Forse potrebbe partire, andarsene chissà dove, senza neppure pensare di ritornare; ma riflette che sarebbe soltanto una debolezza, e lui non se la vuole permettere. Deve comportarsi esattamente come se nulla fosse accaduto, pensa, questo è il punto. Perciò Diego rientra in casa come ogni sera, senza cercare alcuna differenza con ogni altra sera; e lei è là, come sempre.


Bruno Magnolfi

venerdì 5 settembre 2014

Senza alcuna direzione.

            
            Il portiere era da solo dietro al bancone del piccolo albergo. Aveva subito controllato la prenotazione, poi registrato i miei dati, verificato con una semplice occhiata che non avessi bagaglio, come forse già immaginava; poi aveva appoggiato sul piano orizzontale la chiave della mia camera. Dalla finestra non si vedeva molto, però si percepiva la presenza della città fuori da quell’arredamento ordinario e impersonale della semplice stanza: una città di provincia, con qualche chiesa antica e alcune opere d’arte forse da vedere, con le case disposte sui piani ondulati di due o tre colline. Lei sarebbe arrivata più tardi, come d’accordo.
            Mi ero sciacquato la faccia e le mani, prima di scendere al bar di fronte alla strada. Avevo deciso che avrei aspettato lì, piuttosto che farmi trovare in quella camera squallida. Alcuni tizi giocavano a  carte, altri parlavano di qualcosa poco importante. Non mi sentivo molto a mio agio neppure là dentro, però mi ero fatto servire un caffè, lo avevo bevuto velocemente e anche con scarsa soddisfazione; infine ero uscito da quel locale per fare due passi. La mia auto era parcheggiata trenta metri più avanti, ed adesso la sua vista mi dava il sollievo della via di salvezza, come se ne avessi davvero bisogno.
            C’era una vecchia seduta su una panchina, il piccolo cane vicino, al guinzaglio. Dissi qualcosa, come il prolungamento casuale di un pensiero svagato, e quella rispose di non preoccuparmi, che il cane era buono, praticamente si poteva fargli qualunque cosa. Mi abbassai per toccare un orecchio del cucciolo, e le chiavi tintinnarono nella mia tasca. Immaginai lei mentre stava arrivando, nervosa, concentrata su tutti i passaggi che doveva affrontare. La vidi triste, tesa, senza alcuna voglia vera di affrontare quella novità che le offrivo.
            Tornai indietro, una volta giunto al primo angolo di quella via; la vecchia adesso non c’era più, la panchina era libera, così mi sedetti al suo posto. Controllai il telefono muto, quasi per inerzia, poi mi parve di sentire la voglia profonda di essere altrove. Cercai convintamente di controllare ogni più piccola emozione, ripercorrendo la logica delle cose; infine sentii da qualche parte il desiderio di aver già superato in qualche maniera quei due giorni che ormai ci attendevano.
            Quando vidi la sua utilitaria, mentre lentamente percorreva la strada cercando un parcheggio, non mi mossi per niente da dove mi trovavo. Lei non mi aveva notato; spento il motore e sbattuto lo sportello era entrata subito dentro l’albergo. Immaginai tutti i pensieri di quel portiere fino ad allora impegnato probabilmente in un videogioco: le parole di lei mentre chiedeva se ero arrivato, i gesti usuali di lui sopra al bancone. Non mi decidevo ad alzarmi da quella panchina, mi chiedevo senza trovare risposta cosa dovessi davvero fare.  
            Alla fine il motore della mia auto mi scosse, una volta girata la chiave dentro al cruscotto: arrivai quasi senza respirare fino in fondo alla strada, poi tornai indietro come cercando la direzione per andare a riprendere l’autostrada, ma rallentai quasi incoscientemente, per andare a fermarmi proprio davanti a lei, ferma sul marciapiede. Ciao, dissi, abbassando il finestrino; e lei, con uno sguardo sfuggente, mi restituì in un attimo, senza usare parole, tutta le perplessità che c’erano in ognuno di noi, per quell’incontro che forse non portava proprio da alcuna parte.


            Bruno Magnolfi

martedì 19 agosto 2014

Quasi volutamente estraneo.

            

Forse, rifletteva Cesare Bonini, forse ci riesco. Non era troppo difficile, si trattava soltanto di impegnarsi un po' di più fino ad arrivare in cima alla salita, tanto per fare un minimo di allenamento. Sono piccoli sforzi, questi, è sufficiente convincersi di esserne capaci, pensava, il resto poi è soltanto una sciocchezza.
Invece era crollato, Cesare Bonini, senza più fiato e con le gambe doloranti, peraltro ormai a poca distanza dalla meta, quella che si era prefissato di raggiungere come per una ennesima scommessa con se stesso. Era soltanto un gioco, lo sapeva, ma adesso gli era parso proprio che tutto il resto avrebbe fatto da lì a poco la medesima fine. Non aveva più entusiasmo, ecco il punto, ed adesso riusciva solo a compiangersi per quello che non si sentiva più in grado di fare.
Per questo motivo lei aveva continuato ad aspettare Cesare Bonini quella sera, con tutto l'impegno e la voglia di ogni sera, ma lui non si era fatto vedere, né durante quella sera, e neppure in quelle seguenti. Trascorsero quasi due mesi in questo modo, lei piena di un esagerato orgoglio per poterlo davvero cercare, e Cesare Bonini perso dietro a dei pensieri che forse non aveva mai neppure avuto, ma che adesso lo inchiodavano ad una solitudine quasi senza speranza. Infine lui prese tutto il coraggio che riusciva ad avere dentro di sè, e le inviò un biglietto.
Ciao, le diceva, cercando di tenere un tono allegro, quasi come se non ci fossero mai state tra di loro tutte quelle promesse di sentimenti e di futuro assieme. Non posso dire che non sia successo niente, le spiegava; né allo stesso tempo che sia accaduto veramente qualcosa di importante. Sto bene, ti ho pensato spesso, non ci sono veri problemi come forse potresti facilmente immaginare. La prossima settimana passerò sotto casa tua come sempre, ti lancerò il nostro segnale pattuito, e se tu vuoi potremo vederci e magari ricominciare tutto come prima.
Poi Cesare Bonini aveva infilato il biglietto in una busta che a dire la verità aveva tenuto in tasca per diversi giorni, fino a stropicciarla e a renderla sgualcita, e quando infine si era deciso a consegnarla, una sera uggiosa piena di nuvole e promesse di cattivo tempo, e ad infilarla nella cassetta per la posta di lei, si era accorto all'ultimo momento che nel proprio messaggio non aveva detto niente di quel suo silenzio. Non le aveva neppure chiesto scusa per il suo comportamento, e non le aveva neanche fatto cenno dei suoi sentimenti o dei suoi rinnovati propositi per il futuro. Così si era vergognato almeno un pochino quando ugualmente aveva messo il biglietto nella sua destinazione, ma in ogni caso, dopo averlo fatto, si era comunque sentito subito meglio.
Cesare Bonini non ricevette mai alcuna risposta, nessun segnale fu capace di far tornare le cose così come erano state precedentemente, ed una sera, camminando volutamente lungo quelle strade in cui sapeva avrebbe probabilmente potuto incontrarla, la incontrò davvero, ma soltanto per rendersi conto in quell’attimo per lui quasi imbarazzante, che lei non aveva più voglia neppure di guardarlo, proprio come ci si comporta con un qualsiasi estraneo.


Bruno Magnolfi

domenica 3 agosto 2014

Immune alla vita ordinaria.

            

Tutto avviene dentro di me, non c'è niente di male in questo, rifletto con calma. E’ sufficiente appena un pizzico di questa polvere celeste, tanto per iniziare, e poi così farò reagire il mio organismo quel tanto che basta per dar vita ad un lento processo verso l'immunità. Da ora in avanti dovrò semplicemente tenere sotto controllo le dosi da assumere ogni giorno, sempre alla medesima ora, sempre un grammo in più ogni volta. Questo veleno per i topi è potente, lo ha detto con chiarezza il tizio che me lo ha venduto, ed è un prodotto che posso acquistare facilmente in tutti i negozi per orticoltura e cose del genere.
Ci vorrà molto tempo, ne sono cosciente, ma non ho alcuna fretta; dovrò affrontare dei sicuri rivolgimenti di stomaco, dei dolori anche persistenti in tutto l’apparato digestivo, ma poco per volta il mio fisico si adatterà a questo prodotto, reagirà con forza producendo gli anticorpi che servono, e tutto procederà così fino a quando riuscirò infine ad assumere una dose completa di questo veleno senza lamentare alcuna reazione. Sono immune, potrò allora gridare in faccia a chiunque; cosa della quale voialtri non potete affatto vantarvi, né adesso né mai, esseri goffi come siete, miseri organismi frutto soltanto di debolezze, corpi fragili, facili prede di qualsiasi sostanza, persino di uno stupido veleno per topi.
Il mio corpo è il miglior laboratorio che esista, rifletto, posso tentare su di lui gli esperimenti che voglio, e plasmare con decisione e costanza tutto ciò che mi passa dentro la testa. La polvere celeste ormai è entrata in circolo, ne avverto già qualche reazione, esco di casa per camminare in mezzo alla gente e così lenire in qualche modo questi piccoli dolori che provo. Sorrido forzatamente mentre incontro tutte queste ignare persone, loro non sanno minimamente ciò che sta avvenendo dentro di me, questo processo che lentamente sta cambiando tutto di questo mio corpo. Non sto molto bene, ma è un elemento del tutto momentaneo, e poi non è affatto importante, perché è proprio nel superamento di fasi del genere che riuscirò a diventare superiore a chiunque. Gli altri non lo sanno, non riescono neppure ad immaginare il lento processo a cui mi sto sottoponendo, non si rendono affatto conto di ciò che sta elaborando autonomamente il mio perfetto organismo, non comprendono per nulla quanto qualcuno come me possa in questa maniera essere differenti da tutti.
Sono costretto a fermarmi nei pressi di un angolo per via di un tremore alle gambe; la testa mi gira, mi sento confuso, ma sono soltanto le ultime avvisaglie del mio organismo che sta prepotentemente superando la crisi. Sto già meglio, lo sento, sono già oltre il confine, oltre la linea di demarcazione tra me e tutto il resto, rifletto: adesso posso guardare tutti gli altri con occhi diversi, vantare persino nel mio atteggiamento la superiorità che oramai mi sono conquistato in questa maniera. Adesso sono migliore, rifletto, inutile persino negarlo.


Bruno Magnolfi