giovedì 23 febbraio 2017

Interpretazione musicale.

           
            Il suono è quello che conta, pensava lei anni prima lucidando all’infinito quel suo amato violino. Adesso, dopo l’abbandono quasi repentino dell’orchestra e di quel mondo, soprattutto per la sua incapacità di stare al passo con le prove, considerati anche gli estenuanti spostamenti di città e di nazione per l’esecuzione di tutti i concerti, le resta soltanto quella custodia: un guscio chiuso, dentro ad un mobile di casa, e le poche fotografie dei suoi amati successi inserite in un album. Non ha mai voluto dare lezioni, non è per questo che si è sacrificata, nonostante il suo diploma e tutta l’esperienza che aveva maturato, perché la musica resta per lei soltanto la giusta interpretazione della pagina scritta, e quindi adesso quello è come un capitolo chiuso, qualcosa che è esistito una volta e poi basta. Però ascolta ancora le belle sinfonie alla radio o sui dischi, e le piace farlo sempre da sola, con la mente proiettata in quelle mani che sente ancora scorrere veloci sopra le corde, e quel suono che ancora le appare fantastico, meraviglioso.
            Suo marito non le ha mai chiesto niente: quando si sono conosciuti, diversi anni prima, lei aveva già abbandonato la sua carriera da concertista, e non desiderava neppure parlare troppo di quella dolorosissima scelta, così adesso niente di quel passato sembra mai affiorare nelle sue giornate attuali. Lei esce da casa, guida la sua utilitaria, va al supermercato e sceglie gli acquisti; poi torna a casa e sistema dispensa e frigorifero. Spesso si vede con un’amica, vanno insieme a sedersi dentro un caffè e parlano della famiglia, dei loro gusti, delle scelte che fanno. Lei dice: certe volte negli ultimi tempi mi sento malinconica; ma poi penso che i giorni futuri saranno senz’altro migliori di adesso, e così tutto mi passa. L’amica la guarda con un’espressione vaga. Comprende benissimo che in fondo accontentarsi di un’esistenza normale non deve essere stato per lei troppo facile, eppure sembra quasi impossibile scavare tra i suoi sentimenti alla ricerca di quella materia. 
            La malinconia fa parte di noi, le risponde l’amica cercando di pungerla in qualcosa che magari ancora le brucia, ma lei si limita ad osservare qualcosa in un punto qualsiasi, per poi dire che per lei sono soltanto degli attimi, e dopo nient’altro. Però spiega che si è messa negli ultimi giorni a spolverare le cose, a fare pulizia di alcune cianfrusaglie, ed ha lucidato persino la custodia del suo violino, ritrovato in mezzo a tutte le cose vecchie. L’amica torna a guardarla, ma solo per un attimo. Lo hai anche aperto, immagino, le dice sbrigativa. Lei ci pensa per un tempo infinito, poi dice: si, ed è stato terribile. Ma cambia immediatamente argomento, senza spiegarsi, senza dire che cosa davvero ha trovato dentro quel guscio, e che cosa ha provato nel tornare a riaprirlo.
L'amica resta in silenzio, la lascia dire quello che vuole, a ruota libera, nell'attesa che torni spontaneamente a parlare della cosa importante che aveva da dirle. L'ho ripreso, spiega lei alla fine evitando ancora di guardare l'amica; l'ho messo sopra la spalla, senza neanche accordarlo, ma così, solo per sentirne l'effetto lungo il mio braccio. Penso che dopo tutti questi anni riprenderò un pochino per volta ad esercitarmi, dice adesso tornando a guardarla; forse solo per suonare qualche sera che ho bevuto un po' troppo, di fronte agli amici o ai parenti, spiega ridendo. Certo, il mio suono non sarà mai più neppure somigliante a quello che è stato, ma non voglio buttare via definitivamente  una parte così importante di me. Eppoi ho scoperto che quella cassa armonica, così bella e perfetta, da troppo tempo non è stata più lucidata.


Bruno Magnolfi

martedì 21 febbraio 2017

Come una colpa fondamentale.

            

E’ stato proprio nell’esatto momento in cui era richiesta determinazione e freddezza che mi sono mostrato un uomo debole, troppo indeciso sul da farsi, incerto persino nei movimenti più naturali, e sono riuscito soltanto a guardarmi attorno come per cercare una via di fuga solo per me e per nessun altro, si ripete lui mentalmente, come non perdonandosi neppure in parte ciò che gli è capitato da poco. Ma è successo tutto così in fretta che non ho avuto neanche il tempo per rendermi conto di quanto stava accadendo, dice tra sé trattenendo ancora le lacrime. Ora gira per strada, cerca il modo di lasciarsi alle spalle quei fatti, di riprendere in qualche modo la sua vita normale. Ma ha quasi paura di incontrare qualcuno che lo riconosca, che gli possa puntare un dito ed indicarlo come il colpevole, per questo cammina lontano dal suo quartiere, tra gente che spera non sappia niente di lui, tenendo comunque la faccia sprofondata tra i baveri del suo cappotto.
Ogni tanto si ferma, si guarda attorno, rivede ancora una volta quei fatti come fossero ancora lì, a portata di mano, e si sente di nuovo un vigliacco, incapace di stare con gli altri, ormai ai margini della comunità dei cittadini che ha sempre considerato come la sua famiglia. Che vita può essere quella che ruota soltanto nella ricerca di qualche scusa con cui giustificare le cose successe, che non riesce a guardare gli altri negli occhi senza più alcuna paura, senza quell’angoscia che provoca un tempo inevitabilmente scaduto, che non permette recuperi.
Si siede su una panchina, stremato, e forse vorrebbe che qualcuno tra coloro che lo conoscono meglio fosse in questo momento lì accanto a lui, a dargli la propria opinione, a proporre un diverso punto di vista per una attenta lettura di quanto accaduto, magari anche per consigliarlo su quanto sia possibile fare per ritrovare la sua elementare normalità, ma mai avrebbe il coraggio di andare a cercare quella persona per chiedergli aiuto. Così resta solo, fermo sulle sue posizioni, paralizzato in una opinione di sé che non porta da alcuna parte, e che non riesce a sgombrargli la mente da quei pensieri, nemmeno in piccola parte.
Forse la sua è soltanto una forma di ordinaria disperazione, un incubo in cui è caduto senza neppure essersene reso conto davvero, ed adesso che tutto ormai sembra compiuto, il suo assomiglia soltanto ad un esilio dal quale non è proprio possibile sottrarsi, e che forse rappresenta l’unica forma disponibile per espiare almeno in parte una colpa che comunque resta lì, sopra di lui, inevitabilmente. Poi si guarda attorno, un anziano signore lo osserva, lui distoglie velocemente lo sguardo, quello invece si avvicina con calma, si siede accanto a lui, quasi come cercando la sua compagnia. Infine apre il giornale, scorre qualche notizia, sembra quasi ignorarlo, ma forse solo per non apparire troppo curioso.
La colpa è soltanto mia, dice lui; l’altro lo guarda, in silenzio, attende così che vada avanti, che si spieghi, che ormai dica tutto quello che sa. Ci sono delle volte che per un qualche motivo non si riesce ad incarnare le idee in cui si è sempre creduto. Allora tutto ci sfugge, improvvisamente tiriamo fuori una persona che neppure conosciamo, dei modi coi quali non abbiamo mai avuto niente a che spartire, e che invece sono qui, dentro noi stessi, anche se fino ad un attimo prima non lo sospettavamo neppure. Rimaniamo sorpresi, storditi, increduli, ma non c’è niente da fare: questa è la realtà, oltre noi stessi. L’altro lo fissa ancora un momento, ripiega il giornale con calma, e infine gli dice: poi arriva anche il momento in cui dobbiamo accettarsi per quello che siamo, e andarcene a casa; così come avremmo fatto in qualsiasi altro giorno.


Bruno Magnolfi  

lunedì 20 febbraio 2017

Come un foglio di carta.

          

Fuori da qui non c'è niente, dice lei ogni tanto con voce non troppo alta e scuotendo la testa, visto che nessuno generalmente mostra la voglia di ascoltarla o di prenderla sul serio. Resta seduta nel suo angolo, guarda qualcosa in un punto imprecisato invisibile agli altri, e poi basta, immobile, senza provare alcun desiderio apparente. Ma certe volte si alza, cammina lentamente fino ad uno dei finestroni del corridoio, guarda qualcosa nell’ampio cortile di fronte ed infine torna a scuotere la testa, come se tutto confermasse la sua idea di fondo e lei non riuscisse proprio a vedere in mezzo a quel piccolo spiazzo ciò che desidererebbe trovarvi.
Qualcuno certe volte sorride di quei suoi comportamenti, altri invece li ignorano. Lei trattiene costantemente quella specie di fissazione dentro di sé, ma nessuno riesce a spiegarsi che cosa significhi veramente. Gli altri al centro anziani giocano a carte, passano il tempo in conversazione, o a leggere i giornali, oppure impegnandosi in tante altre cose, ognuno cercando in ogni caso di stare con tutti, di fare comunità, di ripescare dentro se stesso uno spirito solidale che tutti gli animatori e i volontari della associazione naturalmente incoraggiano. Con lei invece è difficile persino farsi rispondere a delle semplici domande: lei sta in quelle stanze perfettamente in silenzio, come se quella fosse la sua postazione ormai definita, nell’attesa perenne che solo il pulmino comunale, nella stessa maniera di quando la trasporta fin lì, alla fine dell'orario di apertura del centro la riaccompagni fino alla sua porta di casa.
Una delle altre donne, per provare a scuotere quel suo torpore, le dice che nei giorni a seguire si dovranno trasferire da quella sede, e che è già pronto un altro edificio poco distante, attrezzato e forse anche più confortevole. Lei ascolta in silenzio, guarda con attenzione il suo punto invisibile, poi dice che a lei non importa, qualsiasi luogo non le appartiene, è privo di senso, che tutto quanto secondo lei risulta vuoto, un contenitore del niente. L’operatore di turno la guarda negli occhi, le dice che certo non deve aspettarsi delle grandi novità, ma forse dentro la nuova sede potrà trovare qualcosa che la incoraggi ad essere maggiormente vitale.
Lei, come fa spesso, torna a guardare fuori dai vetri, poi muove la testa, osserva un punto qualsiasi, senza apparente importanza, ed infine dice qualcosa, con una voce meno incolore rispetto a tutte le volte, come si fosse davvero smosso qualcosa dentro di sé. Non c’è niente là fuori, spiega di nuovo ma adesso quasi con un certo entusiasmo: dobbiamo perciò essere noi, con le nostre esperienze, con tutto il passato che abbiamo da dire e da raccontare, a riempirlo con qualcosa di vivo. Gli altri la guardano increduli, in due smettono addirittura la partita di carte, l’operatore sull’immediato resta senza parole, poi si riprende e le dice: certo, questo è proprio quello che dobbiamo stabilire come obiettivo finale.
Più tardi arriva il pulmino, salgono tutti lasciandosi aiutare dall’autista e da un volontario, ma lei resta per ultima, come fosse restia ad abbandonare quel luogo. Infine si siede nella vettura, assume la postura e l’espressione di sempre, però tra sé dice ancora come seguisse una logica precisa, che pur non essendoci niente da quelle parti, niente di interessante davvero, allora tutto si potrebbe osservare come qualcosa di estremamente importante, quasi fosse un semplice foglio bianco di carta, dove si può ancora scrivere.


Bruno Magnolfi  

martedì 14 febbraio 2017

Come un segreto da custodire.

           

Come per una qualsiasi abitudine, lei si osserva sempre le mani prima di uscire da casa. Le sfrega ancora una volta dolcemente una con l'altra, apprezzando il velo sottile della crema che usa ogni giorno ancora rimasta sopra la pelle, un prodotto che ne combatte la secchezza e che risulta anche adatto per ammorbidire e rendere meno visibili quelle piccole rughe sui dorsi; poi riavvia con la spazzola i suoi capelli già pettinati con cura, ed infine sentendosi confortata da un ultimo sguardo dentro lo specchio che le restituisce l'immagine di donna che lei si sente di essere, è pronta ad uscire. Poi prende il solito giaccone invernale ed una piccola sciarpa dai colori intonati col resto, e mentre indossa questi due capi con attenzione torna di nuovo ad osservarsi le mani, come se quello fosse ancora l'elemento meno adeguato di tutto ciò che normalmente pensa ed accetta di sé. Alza le spalle alla vista di quelle dita così bianche e un po’ raggrinzite, e pur non contenta di quella visione, spalanca lentamente la porta ed esce di casa.
Forse il colore dello smalto sulle mie unghie è un po’ troppo vistoso per non mettere in grande evidenza anche tutte le mani, pensa mentre scende le scale; ma in fondo è quello che mi piace di più, riflette con convinzione, così intenso e definito come risulta; ed anche se forse proverò nei prossimi giorni una tonalità meno marcata, per il momento sento che questo colore è quello che maggiormente si avvicina ai miei gusti. Con il suo passo ritmato arriva fino alla fermata dell’autobus che giunge fortunatamente dopo appena un minuto, e dopo il breve tragitto percorso quando ne scende va a rallentare soltanto trovandosi vicina al caffè dove sa di essere attesa. Lui gentilmente si alza alla sua vista, sorride, l’aiuta a togliere il giaccone salutandola con delicato calore, e poi la invita a sistemarsi al suo tavolo, come ogni pochi giorni succede da circa un anno.
Arriva un cameriere che prende le ordinazioni e poi si ritira, lei si schernisce per qualcosa che lui sta dicendo, infine si guarda un po’ attorno, senza insistenza, come se non conoscesse il locale. Il cameriere dietro al bancone scuote la testa parlando di qualcosa con un suo collega, lei con la coda dell’occhio lo vede, così quasi per un automatismo torna a guardarsi le mani, che subito tenta di nascondere, rattrappendole in parte dentro le maniche, e cercando di muoverle il meno possibile. Arriva il caffè e la tisana, accompagnati da qualche pasticcino, e lui, di fronte al lieve vapore che emanano le loro bevande, mette sul tavolo un piccolo regalo, un pensierino che sottolinea quanto ci tenga al loro rapporto.
Lei indossa subito l’anello con gioia, ma tornando evidenti in un attimo quelle sue dita ossute e poco eleganti, cerca subito di parlare di qualcosa che almeno disorienti lo sguardo di lui. Però si sente felice, appare con ogni evidenza, tanto che sente ammorbidirsi lo sguardo, come per un accesso di commozione, anche se poi prende un sorso della sua tisana e cerca di mettere velocemente ogni debolezza alle spalle. Sa che quell’anello è estremamente importante per tutti e due, sa quanto assuma valore quel gesto, molto più che tante parole, anche se ciò che le dispiace di più è non poter avere le mani più adatte ad indossare un pensiero del genere. 
Lui si schernisce, si guardano a fondo negli occhi, sorseggiano le loro bevande e sorridono vicendevolmente di qualcosa che provano ambedue con ogni evidenza. Poi decidono nel giro di pochi minuti di uscire da quel locale, e magari andarsene da qualche altra parte; così lui paga le consumazioni al solito cameriere, lei torna ad indossare il giaccone, ed infine si avviano fuori, sul marciapiede, ma considerato che la stagione è ancora invernale e non fa molto caldo, lei volentieri tira fuori dalla borsa dei guanti che ha sempre con sé, ed adesso velocemente li infila sopra le mani. 


Bruno Magnolfi

lunedì 13 febbraio 2017

Come una meta introvabile.

            

Eppure deve essere per forza da queste parti il bivio che cerchiamo, dice lei mentre continua a scrutare il buio intenso intorno a quella strada illuminata soltanto dai suoi fari, reggendo comunque il volante dell'auto con una certa leggerezza, quasi in punta di dita, pronta a svoltare o a fermarsi alla prima avvisaglia del cartello stradale che spera ancora di vedere. Lui, al suo fianco, non sembra neanche molto interessato a quei segnali, quanto alle mappe del territorio, purtroppo non aggiornate, proposte da un vecchio navigatore elettronico che adesso tiene acceso e posizionato sopra ad una gamba, quasi fosse una bussola o un sestante, e da cui sembra tirare fuori, con grande ottimismo, gli allineamenti previsti con le stelle maggiori, dalle quali cerca di trovare un riferimento almeno storico, proprio all’interno di quell'angolo, probibilmente corretto anche se non adeguatamente calcolato nei confronti di un ipotetico orizzonte geografico.
Tutto qui intorno, dice lei; da qualche parte dietro questo bosco di vecchie querce e di castagni, o nascosto proprio da quel poggiolo qui di fronte, come un villaggio arcaico sperduto nel nulla ed oramai dimenticato, come una realtà viva ed importante purtroppo incastonata in mezzo, e contemporaneamente situata anche lontano da tutto ciò che si conosce persino troppo bene, ma che ha perso con ogni probabilità qualsiasi interesse per chiunque, e magari è stata persino nascosta ed oscurata da ciò che la circonda. Ecco, prosegue, credo che stiamo andando incontro ad una vera e propria scoperta, quasi un ritrovamento epocale, e tutte le difficoltà di questo momento verranno ripagate sicuramente dallo stupore che senz'altro proveremo al nostro arrivo.
Lui non sente la stessa carica emotiva così evidenziata, e continua quasi a svagarsi con delle mappe luminose sempre meno attendibili, praticamente inutili, fino a sbadigliare forzatamente passandosi una mano tra i capelli, preludio alle semplici parole: penso che dovremo proprio tornacene sui nostri passi, magari fermarci ad una trattoria di campagna ai margini della nostra civiltà, e concludere la serata semplicemente in questo modo. Lei non lo ascolta neppure, proseguendo a guardarsi attorno e cercando ancora con insistenza qualcosa che le dimostri almeno di essere nel giusto, di avere avuto fede, coraggio, tenacia, anche se alla fine sa benissimo che probabilmente non ci sarà niente a ripagare tutti quei suoi sforzi.
Va bene, dice ad un tratto, fermiamoci pure in questa piazzola e facciamo il punto della situazione. La zona collinare, a cavallo tra quelle due province povere, sembra proprio scarsamente frequentata, come fosse una valle rurale senza sbocchi, priva di risorse, quasi un deserto inabitabile. L'unica cosa di cui abbiamo certezza è data dalla stessa strada che abbiamo percorso fino qui, spiega ancora lei guardando insistentemente il buio fuori dal parabrezza. Tanto vale tornarcene indietro usando quel minimo di razionalità che ci rimane, anche se sono sicura che oltre qualcuna di queste semplici curve avanti a noi ci attenderebbe probabilmente una sorpresa inimmaginabile.
Lui annuisce senza convinzione, spenge definitivamente il suo aggeggio elettronico, sorride tra sé per quella decisione presa, e fa un semplice cenno con la testa, sottintendendo la sconfitta parziale del momento che non dovrebbe in nessun caso inficiare l'impegno per quel risultato finale tanto desiderato, qualora ci fosse stato. Lei così ingrana la marcia, inverte la direzione dell'automobile, ed improvvisamente appare quasi contenta di quella comune decisione.


Bruno Magnolfi

mercoledì 8 febbraio 2017

Come una serie infinita.

            

            Prima c’è un muretto, subito dopo un albero, ed infine la casa, senza possibilità di alcun errore. Lui passa sempre lì davanti, accompagnato ogni volta da qualcuno della sua famiglia, che in genere lo aiuta a percorrere la rampa di scale quando esce, e poi lo tiene sottobraccio per tutto il tempo. Sta in silenzio lui, e guarda sempre avanti a sé; cammina lentamente ma in modo regolare, fermandosi ogni tanto, e dopo un po’ lascia che il suo accompagnatore gli chieda se voglia restare ancora fuori a passeggiare, o se al contrario sia già possibile rientrare nella loro abitazione. Lui fa un semplice gesto con la mano, e allora rientrano; altrimenti produce un piccolo verso di sofferenza con la gola, come se ancora non avesse preso tutta l’aria di cui sente il bisogno, e così viene ripetuto ancora una volta, o magari anche due, quel piccolo percorso lungo il marciapiede, prima di rincasare e sistemarsi di nuovo dentro la sua stanza preferita.
            Quando invece è nel suo appartamento, lui parla e parecchio: dice spesso con parole secche che cosa abbia notato di particolare quando è uscito fuori per la sua piccola passeggiata, proprio come qualsiasi attento osservatore, e poi ripete le sequenze che conosce meglio, e soprattutto quella del muretto, dell’albero e infine della casa, perché sono gli elementi più importanti, quelli che stanno sempre a fondamento di tutto il suo percorso. Il mondo nei suoi occhi forse sembra ridotto a pochi elementi, per chi magari lo osserva da fuori con un certo distacco ed anche con sufficienza, ma c’è invece molta sostanza in quei suoi occhi attenti, più di quella che potrebbe sembrare.   
            Ci sono delle grosse pietre regolari alloggiate nella terra nuda; stanno lì a circondare il piede dell’albero, come per creare una piccola aiuola, e lui ne conosce perfettamente sia le sfumature di grigio che la posizione, tanto che quando un ragazzo ne aveva spostata una per gioco, lui si era abbassato, aveva spinto in avanti con le mani quella fuori posto, e aveva ripristinato la situazione precedente. Anche la casa accanto ha delle particolarità nascoste: piccoli dettagli inseriti direttamente sopra la facciata, e che lui conosce perfettamente, anche se non per un vezzo maniacale, quanto per esercitare anche con se stesso la propria capacità di essere attento, capace, perfettamente abile nelle attività di cui si interessa.
            La mamma, con la quale esce più spesso che con chiunque altro, lo controlla ogni volta, ma senza guardarlo mai direttamente e neppure facendogli delle domande, e lui, che adesso ha raggiunto quasi i quindici anni, conosce bene quelle maniere, tanto da riuscire spesso ad eluderle, certe volte semplicemente girandole le spalle, magari solo per osservare di nascosto qualcosa di cui è interessato. Poi si mette a disegnare al suo tavolo, sempre con quel suo modo essenziale, con una matita, senza colori né orpelli, delineando giusto gli oggetti, e rendendo con un metodo del tutto personale, quelle sequenze precise che prosegue a ripetere dentro di sé. Quei disegni sono il suo lato comunicativo maggiore, naturalmente, e quella raccolta è tenuta in serbo con molta attenzione.
            Lui mostra il disegno, qualcuno della famiglia lo guarda, ma senza che sfugga mai da nessuno troppa  emozione. Non è molto bravo, questo è certo, però è assolutamente preciso, ed ogni tanto inserisce nelle sue serie un elemento che nella realtà non si è mai visto. Per questo la siepe tra l’albero e il muro è diventata motivo di studio da parte di tutti. Poi si è chiarita ogni cosa: la siepe fa parte di un’altra sequenza, un gruppo di altri elementi che stanno poco più avanti lungo la strada; una componente di fantasia insomma, che definisce soltanto la sua voglia di superare una visione diventata forse troppo monotona.


            Bruno Magnolfi  

sabato 4 febbraio 2017

Cosa gradita.

            

            Certo, signor Mini, in pochi minuti sarà tutto a posto, non si preoccupi, dice lui mentre sistema rapidamente almeno i fogli degli ordini dietro la piccola scrivania che funziona anche da cassa. Non si fa vedere molte volte in quel negozio di libri, il signor Mini, ma quelle poche volte vorrebbe sempre trovare tutto ordinato, è quasi una sua fissazione, e se questo non appare proprio come lui se lo immagina, si limita comunque a girare tra gli scaffali ed a guardare da tutte le parti quasi senza parlare, come se fosse già sufficiente la sua presenza a mostrare quel senso di rimprovero che prova dentro di sé per il suo dipendente nonché direttore della libreria.
            Non ci vuol niente a mettere a posto le cose, dice lui con le mani ancora piene di carte e di volumi, ma se vuole posso rimanere oltre l’orario di chiusura, stasera, per rimettere in ordine alfabetico tutti quei libri che lei mi ha segnalato. Il negozio naturalmente non fa molti utili, e la decisione di chiudere definitivamente è sempre pronta dietro ad un angolo. Lui è riuscito poco per volta ad attirare là dentro diverse conoscenze culturali del quartiere, personaggi interessati ai buoni libri, e che animano volentieri la discussione letteraria: si piazzano là dentro durante certi pomeriggi, e sfogliando qualche edizione parlano tra loro e consultano volentieri le pagine stampate. Acquistano anche qualche cosa, naturalmente, e quindi tutto appare così giustificato e funzionale. Ma quando arriva l’ora della chiusura del negozio i libri appaiono immancabilmente confusi tra loro, posizionati in scaffali diversi da quelli di origine, e per il signor Mini, quando si fa vedere là dentro, questo non è minimamente sopportabile.  
            A volte lui si è anche chiesto, per pura curiosità, quale sia stato il motivo per far aprire al signor Mini quella libreria che porta il suo nome, ma non si è mai sentito tanto in confidenza con quell’anziano signore, in quei quattro anni da quando lavora là dentro, da poterglielo chiedere. Perciò prosegue a mandare avanti le cose come gli sembra maggiormente opportuno, e tutto sommato si ritiene abbastanza orgoglioso del suo operato, tanto che, nonostante le brutte espressioni che assume la faccia del signor Mini, lui non evita di far presente quali siano i buoni risultati di quella attività: si fanno vedere alcuni noti scrittori in quel negozio, docenti universitari ben conosciuti, e non passa settimana senza che venga richiesta qualche presentazione di libro a cui assistono spesso anche decine di persone, che poi acquistano sempre qualcosa.
            Lei forse li regalerebbe i libri, pur di trovarsi sempre attorno tutta questa gente, dice a volte il signor Mini con un sorriso ironico; e lui sorride, prende frasi del genere quasi fossero un gran complimento, ma quando poi si tirano le somme sul venduto effettivo, le cose non appaiono più tanto allegre, anche se le cifre non sono mai scese sotto al minimo dell’effettiva sopravvivenza per quel tipo di attività. Alla fine tutto quello che si riesce a dire di male del suo operato è sempre ridotto a questioni di precisione, anche se è proprio quella la caratteristica della libreria: se fosse tutto perfettamente ordinato, sostiene lui a suo discapito, probabilmente qualcuno inizierebbe magari ad evitare quel luogo asettico e poco disponibile, fino a far ritrovare chi ci lavora con un negozio perfetto sotto il profilo formale, ma sterile sotto quello umano, e quindi inappropriato.
            Faremo dei lavori, dice alla fine il signor Mini: sto per acquistare degli spazi ulteriori a fianco della libreria, ho anche dei finanziamenti, così potremo ingrandirci e tenere in vendita anche altri volumi, e diventare punto di riferimento per molti altri clienti. Ma tutto questo dipende anche da lei: le sua capacità di fare di questo esercizio un punto di ritrovo si sono già viste; adesso ci sarà bisogno anche di una migliore organizzazione, se non altro per fare a me cosa gradita.


            Bruno Magnolfi

venerdì 3 febbraio 2017

Abiti da fare.

            

Non le è mai piaciuto essere guardata dritta negli occhi da sua mamma. Devi fare in questa maniera, le dice lei in certe occasioni usando la sua voce in un modo sempre così mansueto e dolce, mentre le ricorda con grande pazienza qualcuno dei suoi grandi segreti del cucito. La figlia osserva i suoi modi, le sue mani, magari mette bene a fuoco quei tagli ancora da imbastire, che dovranno essere in seguito ripassati a macchina con un punto un po’ particolare, quei pezzi da montare con pazienza, e spera ogni volta che i loro sguardi non si incrocino, cosa che prima o dopo avviene sempre, immancabilmente. Ci trova qualcosa di freddo e di remissivo in quello sguardo, in quei bulbi oculari sempre lacrimosi, con quella strana luce spenta in fondo, di un colore indefinibile, come un lieve accenno di espressione ignota e mai completa.
I cartamodelli stanno tutti divisi in gruppi dentro ad appositi armadietti, e le due donne lavorano nel laboratorio della propria casa generalmente per tutta la mattina, interrompendosi soltanto per preparare e consumare il pranzo utilizzando le altre stanze, e lasciandosi per il pomeriggio generalmente solo qualche piccola rifinitura: un orlo, qualche asola, cose di poco conto insomma. Ma è proprio alla luce del mattino che la mamma assume quello sguardo, magari mentre vengono composte ed assemblate quelle porzioni di vestito che poi faranno parte della collezione di qualche nome importante della moda. Bisogna lavorare bene, dice la mamma: ci vuole un attimo a perdere la fiducia che ci è stata assegnata.
Durante tutto il tempo che la mamma taglia le pezze di tessuto, oppure passa la stoffa sotto ad una macchina, o magari imbastisce gli abiti, la sua attenzione appare interamente focalizzata da ciò che sta creando, da quei dettagli che poco per volta magicamente prendono forma, tanto da avvicinarsi con le mani il più possibile alle lampade, proprio per vedere ancora meglio ciò che sta facendo. Ma è quando appoggia per un attimo il cucito sul piano di lavoro, o quando adatta la stoffa sopra a un manichino, che allora guarda la figlia in maniera diretta e scrutatrice, come per comprendere se qualcosa non sia forse stato preso in considerazione come lei avrebbe voluto. 
Certe volte la figlia si avvicina alla finestra; la scusa è sempre quella di osservare alla luce naturale come le appare il colore di una stoffa, oppure come sia venuta una certa cucitura, ma in realtà allontanarsi da quello sguardo di sua madre è qualcosa di cui ogni tanto sente fatalmente la necessità, ed una volta vicina ai vetri osserva volentieri tutte le persone che passano lungo quella strada, mentre conversano tra loro, o si tengono a braccetto, oppure passeggiano tranquille.
La figlia è ancora giovane, ma si è sempre impegnata, e sa già fare molte delle cose che sua madre le sta poco per volta trasmettendo. Tra non molto forse potrà cavarsela da sola, eseguire in autonomia gli ordini degli abiti che nominalmente vengono ancora passati alla sua mamma, e prendere decisioni già per conto proprio, lasciando che sua madre poco alla volta esca dal laboratorio, almeno dalla zona esecutiva. Ci sono già due o tre lavoranti che vanno ogni giorno lì da loro, forse in seguito ce ne potranno essere anche alcune altre; prima o dopo la figlia diventerà quella che decide e che gestisce tutto quanto, e così potrà lasciare sua madre a riposare, se lo vuole, e ad occuparsi di altre cose nel resto del loro grande appartamento.
Quel suo sguardo allora diverrà sempre meno utile, e lei finalmente potrà tornare a guardarla dritta dentro gli occhi; e forse non ci sarà niente di male se qualche volta ci troverà soltanto la stanchezza di una vita trascorsa in mezzo agli abiti da fare.


Bruno Magnolfi