sabato 31 ottobre 2020

Antiche presenze.

 

         

 

            “Adesso credo proprio di saperlo, improvvisamente mi è chiaro quasi tutto il disegno completo, quello per cui io sono qui, ed anche il fatto che forse sto facendo la figura dell’idiota nell’osservare l’immobilità di questo panorama”. Il ragazzo sorride tra sé e parla a voce alta da solo, restando fermo davanti alla finestra dell’ultimo piano, dentro l’istituto di filosofia della facoltà a cui è iscritto. L’edificio naturalmente è molto antico, ed è stato ristrutturato già diverse volte, visto che all’inizio era uno dei tanti conventi di suore di quella zona cittadina, ma in seguito fu dismesso dall’ordine, per rimanere poi sgombro ed inutile per chissà quante decine di anni, ma proprio per questo a lui piace tantissimo salire fino in quella strana torretta qualche volta, dove non va mai nessuno, ed in fondo a quel breve corridoio in cima alle scale, restare completamente fermo a riflettere a lungo. C’era una ragazza, fino a qualche settimana più addietro, che a volte saliva con lui per tenergli compagnia, ma poi loro due si sono litigati a causa di qualche sciocchezza, e lei gli ha giurato di non volerlo vedere mai più. Si osserva un giardino poco curato da quella finestra, un pezzo di terra che probabilmente nei secoli scorsi era coltivato ad ortaggi e quindi frequentato e lavorato ogni giorno, ma dove adesso ovviamente non va più nessuno. C’è qualcosa che lo attrae in quel piccolo campo, e lui con uno stratagemma oggi è riuscito a sfilare al custode la chiave per aprire la porta sul retro che ne permette l’accesso. Così adesso, dopo aver controllato per un’ultima volta che non lo notasse proprio nessuno nello svolgere quelle manovre, ha fatto scattare la serratura dell’uscio pesante, ed ha varcato l’accesso di quel giardino oramai dimenticato da tutti.

            Se si rimane là fermi per un po’, sembra quasi di sentire ancora il silenzio in cui doveva essere immerso quel luogo al tempo in cui le monastiche del convento probabilmente percorrevano lentamente i pochi viottoli attorno alle rade colture, oppure sistemavano qualche piantina. A quell’epoca la città intorno era totalmente diversa, e i pochi rumori che forse arrivavano fino là dentro scavalcando con fatica le alte mura di cinta, erano quelli di qualche carretto lungo la strada davanti alla costruzione, trascinato magari da un cavallo tozzo e maldestro, guidato da qualche bracciante. La comprensione delle cose forse passava già da quelle parti, in qualche modo, e nei lunghi giorni identici uno all’altro forse trovava la maniera di rivelarsi allo spirito dell’individuo, passando proprio per lo sforzo e la fatica manuale impiegata per ottenere qualche misero frutto dal proprio lavoro. Ecco, non è storia questa secondo lui, è semplice immedesimazione, voglia e capacità di calarsi per qualche minuto in un contesto diverso dal proprio. Il ragazzo certe volte ritiene di possedere due facce, e a volte persino due teste. La sua qualità più importante è l'empatia con la quale avverte come presente la sofferenza di qualcuno che ha vissuto davvero in un luogo del genere, e forse ha pianto più di una volta per suoi guai, e magari si è sentito disperato proprio lì, accanto a lui, in un'immagine vivida e netta di chissà quanti secoli addietro.

            La ragazza gli ha detto a un certo punto che lui sarà sempre un disadattato, un povero mentecatto che vive perdendosi dietro a dei sogni, o peggio rincorrendo gli spettri, ma lui le ha risposto che non può essere diverso da come si sente, e non ci può fare niente se la sua doppiezza è sempre pronta a tirarlo da una parte o dall'altra, quasi senza lasciarne nella sua mente neppure una piena coscienza. “Non c'è niente di male a rimanere fermi in un luogo per ascoltare le voci di chi è già passato qualche volta da queste parti”, pensa adesso; “e se si riesce ad ascoltare fino in fondo tutto quello che il tempo trascorso ha ancora da dirci, forse si riesce persino a comprendere molte più cose di quelle che si sarebbe potuto mai immaginare”.

 

            Bruno Magnolfi

giovedì 29 ottobre 2020

Merito particolare.

 

           

            Senza capirne del tutto il motivo, lei si ritrova spesso a pensare di essere diversa da tutti, tanto che per esempio quando sale sulla corriera che dal paese le permette di raggiungere il suo posto di lavoro presso una piccola fabbrica artigianale di bigiotteria nella fascia periferica della città, sa già con certezza che qualcuno presente là sopra la sta osservando da subito con un moto quasi di collera nei suoi confronti, anche se probabilmente il soggetto in questione non ha neppure mai parlato con lei, come se la sua sola presenza sul mezzo pubblico fosse capace persino di scuotere l’animo di un qualunque estraneo in questa maniera così negativa. I suoi modi di fare usuali, a suo parere ed ogni volta che cerca di fare una semplice autocritica, sono sempre stati pacati, silenziosi, oltremodo pazienti in ogni situazione, eppure per qualche strano motivo generano comunque, in molte tra le persone che incontra, dei sentimenti di valore completamente opposto a quelli che cerca di mostrare lei. Sul lavoro è tranquilla, svolge le sue mansioni di pulizia finale dei pezzi già completati in perfetto silenzio e quasi in completa solitudine, ma quando per qualche motivo si deve rivolgere ad un collega oppure ad un fornitore di materie prime, in quel momento riceve esattamente solo risposte seccate, mezze parole colme d’ira, espressioni di sprezzo anche soltanto per quello che sta facendo in quel preciso momento.

            Con gli anni il comportamento consueto di tutti l’ha portata sempre di più a rinchiudersi dentro se stessa, a tenere quasi sempre uno sguardo il più basso possibile, a cambiare difficilmente la propria espressione tormentata, e soprattutto a non ridere mai, ma questo comportamento non è riuscito per nulla a cambiare le cose. Abita con i genitori oramai anziani, che fin da quando era una bambina, ma soprattutto in seguito, non si sono mai resi conto del tutto di quel suo problema, anche se sono sempre stati perfettamente a conoscenza di quanto non le sia mai stato possibile socializzare con le altre persone, in considerazione anche del fatto che hanno sempre cercato di darne la colpa semplicemente al suo carattere chiuso, ai suoi modi introversi, al bisogno manifesto che lei ha sempre espresso anche con loro, di starsene il più possibile sola. Col tempo sia la consapevolezza della propria diversità, che la sua conseguente sofferenza, l’hanno costretta a spazi sempre minori di libertà, fino ad evitare persino di uscire da casa se non per andare a lavorare con la corriera, e a trascorrere le giornate festive anche di bel tempo in una completa solitudine nel piccolo chiostro di famiglia dietro la sua abitazione.         

            Adesso poi che non è più una semplice ragazza, non si aspetta certo molto altro dal suo futuro, ed in fondo, anche se è bravissima nel semplice uso delle proprie mani, non ha un grande concetto di sé, esclusa la cura che impiega nel coltivare delle minute piantine in piccoli vasi, nel vederle crescere lentamente ed in piena salute, e nel provare la grande gioia, quando capita, di assisterne lo sboccio dei fiori. Per il resto cerca di essere di normale supporto ai suoi genitori, ogni giorno più in difficoltà, e lascia che le abitudini si mostrino come sempre ogni nuovo giorno che giunge. Non si ribella, non lo ha mai fatto, però ha piena coscienza di essere una persona particolare, uno spirito estremo forse, una donna incapace di mostrarsi diversa, persino qualche volta, rispetto all’immagine che tutti gli altri poco per volta le hanno cucito addosso. Tira avanti, nient’altro, e l’amarezza di fondo che offusca il suo tempo è qualcosa che non percepisce come la coltivazione costante di una colpa personale; ma sa per certo di averla meritata comunque.

 

            Bruno Magnolfi

lunedì 26 ottobre 2020

Dignità per ogni giornata.

           

 

            Nonostante tutto il suo impegno le cose sembrano ultimamente non andarle mai troppo bene. Lei svolge i suoi compiti come sempre, si alza molto presto al mattino, giunge al palazzo degli uffici dove svolge il suo ruolo ancora prima del responsabile, quella guardia privata che disattiva gli allarmi e fa entrare all’interno dell’edificio sia lei che i suoi colleghi, per lasciar loro eseguire come ogni giorno i compiti ordinari di pulizia e sanificazione di tutti i locali. Attendono così, davanti ad un’entrata secondaria, che vengono accese le luci, che si attivino gli ascensori, che tutti i corridoi siano perfettamente percorribili e le porte tagliafuoco disinserite, e poi ognuno di loro raggiunge il piano a cui è addetto, iniziando quindi il proprio lavoro recuperando dai vari ripostigli il carrello e tutto l'occorrente di cui hanno necessità per portare avanti le cose. C'è appena il tempo, prima di entrare, per scambiarsi giusto un saluto o di fare una battuta sul tempo e sulla giornata, a volte fredda, o piovosa, poco promettente, magari afosa, troppo secca o fastidiosa che sia. Poi si va avanti, l’impresa di cui loro fanno parte assicura quel tipo di servizi ad una grande quantità di edifici nella loro città, e tutti gli addetti devono cercare di dare il meglio di sé, senza alcun dubbio. “Inutile proseguire a dannarsi l’anima; siamo un popolo minore”, ha detto un suo collega stamani, e a lei non è piaciuto affatto questo apprezzamento; “siamo dei lavoratori come tutti gli altri”, gli ha risposto piano ma con fermezza, poi non c’è stato più tempo per spiegare altre cose, anche se lei ne avrebbe avuta la voglia. Le montano i nervi quando qualcuno sembra come abbandonarsi agli eventi senza combattere. Si sente orgogliosa di quello che fa, e non le piace neppure spiegarne il motivo.

            Ultimamente però lei si sente più suscettibile che nel passato: sbotta per niente, e certe volte le monta la rabbia persino per delle sciocchezze. In fondo cosa le importa di quello che pensano i suoi colleghi: il lavoro che portano avanti rimane comunque sempre il medesimo, spesso di una monotonia quasi estenuante, e la differenza di un giorno piuttosto che un altro, è tutta giocata semplicemente su qualche superficiale sciocchezza. Più tardi giungono gli impiegati che lavorano in quell’edificio, e tutta la squadra degli inservienti di cui lei fa parte si ritrova a quel punto al piano interrato, a sistemare bene gli utensili, a lavare le spugne e i lavapavimenti che devono usare anche nei giorni seguenti, e radunare tutti i sacchi riempiti con le cartacce ed i piccoli rifiuti d’ufficio, che poi saranno portati all’esterno per lo smaltimento con un furgoncino, compito specifico di un loro collega addetto a quel compito. Lei toglie i guanti e il grembiule, appena giunta nello spogliatoio; poi recupera i propri indumenti, la borsa, si pettina davanti a uno specchio, poi si avvia alla fermata del bus. Questa è la sua vita, questi i suoi compiti, forse modesti, ma per lei va tutto bene così, non chiede nient’altro, ed anche se forse non è pienamente soddisfatta, però tira avanti con energia, con fermezza, credendo in quello che fa. Soltanto quando qualcuno le dice che le persone come lei sono quelle che prima o dopo si sono dovute accontentare di quello che hanno, allora storce la bocca in un’espressione di profonda amarezza. “Non ci sono mestieri più umili di altri”, dice in quei casi calcando bene le sue parole. “Ognuno ha la propria dignità; e se qualcuno per caso cerca di denigrare persino il proprio lavoro, vuol dire che è il primo tra tutti a non esserne degno”.

 

            Bruno Magnolfi  

            

           

giovedì 22 ottobre 2020

Scambio di pensieri.

 

       

 

            “Parlatemi ancora del vostro amico, Lunghetti; quello che avete detto venire proprio qua dentro a farvi delle visite, una volta ogni tanto”. Il medico guarda il degente della clinica San Carlo, ed una volta appoggiati sul piano dello scrittoio i tanti documenti cartacei che ha consultato fino ad ora, osserva adesso con più ferma attenzione quell’altro, quasi che l’immobilità di quel corpo che scruta di fronte a sé, così appoggiato casualmente di sbieco sopra la sedia dell’ambulatorio, assieme a tutto il resto e soprattutto alle risposte che attende di ascoltare, avesse comunque degli aspetti preziosi da scoprire, qualcosa di particolare su cui esercitare il proprio acume scientifico. Il suo paziente, dopo la pausa di un momento, si muove con tutta la calma possibile sopra la sua sedia, alla ricerca di una posizione forse diversa, magari più comoda, o tale che probabilmente permetta alla sua voce di formulare con parole precise ciò che è tenuto a spiegare, se soltanto desiderasse davvero dire ancora una volta quello che a suo parere è già chiaro con gran sufficienza. Sbuffa, difatti, come a mostrare una distanza apprezzabile tra ciò che intende spiegare quando parla di quell’argomento, e la comprensione effettiva che riconosce ogni volta in chi intende ascoltarlo.

            “Non è una persona, dottore”, dice alla fine, proprio quando l’altro sta appena per riformulare l’invito, usando magari delle frasi diverse, quasi ad incoraggiarlo maggiormente a rivelare di nuovo un argomento che comunque ha già conosciuto in altre occasioni, ma che ogni volta gli appare essenziale all’interno del piccolo teatro mentale in cui si muovono i personaggi di questo Lunghetti, classe ‘72. “E’ una forma”, dice quello, “un’orribile ammasso di qualcosa che riesce, non so affatto come, a trasmettere dall’interno di se stesso fin nella mia testa, ciò che lui pensa”. Il dottore muove leggermente le mani sopra il piano della scrivania, poi spiana la carta del suo blocco per prendere appunti, e intanto impugna una matita con la punta appena rifatta, preparandosi a scrivere qualcosa, come ogni volta. “Ed è soltanto orrore quello che mi comunica, tanto risulta completamente inutile per me tentare di scrollarmi di dosso quello che avverto ogni volta in tutta la sua cruda pienezza”.

            “Va bene”, fa il medico con un briciolo leggero di intolleranza; “però ammetterete, Lunghetti, che sia ben strano quanto un ammasso di materia non meglio identificata venga qua dentro, proprio da voi, e soltanto da voi, a rivelarvi l’orrore di qualcosa che un essere diciamo biologico di questa fatta, che normalmente, vorrei sottolineare, non potrebbe con ogni probabilità avvalersi neppure della capacità di pensare, riesca a trasferire, in una poco chiara maniera, qualcosa che a voi appare subito come un’evidente rivelazione, tanto da dare alla comunicazione che immediatamente avvalorate, una definizione a dir poco sconcertante”. Il dottore così a questo punto si alza, osserva per un momento il paziente come è solito fare anche con altri pazienti della sua clinica, poi vorrebbe riprendere quell’argomento, ma viene interrotto dall’altro, che sottovoce gli dice: “non viviamo momenti facili, signore; ed il suo nervosismo è un chiaro segno dei tempi. Però è proprio lei tenuto a spiegare i nostri fantasmi, se proprio dobbiamo dirla tutta, non certo uno come me chiamato per obbligo di dovere a giustificare ciò che lo assilla”.

            Il medico resta perplesso. Raggiunge di nuovo la sua postazione dietro la scrivania, appunta qualcosa sul suo taccuino forse per prendere tempo, ed infine torna a guardarlo con l’espressione di chi ha già emesso su di lui un giudizio finale. “Voi mi prendete in giro”, dice tra i denti. “Sapete come rigirare le cose in maniera da burlarvi continuamente di me, di noi tutti, di coloro che si prodigano con spirito di solidarietà per alleviare le pene del corpo e dello spirito di persone che hanno perso ogni retaggio di scambio umano. In questa maniera resterete qui chissà quanto; probabilmente almeno fino al momento in cui riuscirete a rendervi conto che non c’è oramai più nessun essere desideroso di scambiare dei pensieri con voi. Ma questo già lo sapete, ed adesso, lo capisco benissimo, non ve ne importa un bel niente”.     

 

            Bruno Magnolfi

mercoledì 21 ottobre 2020

Sorelle di ferro.

 

          

            Lo sanno benissimo di non avere tutta quella perspicacia che probabilmente occorrerebbe per comprendere appieno quale comportamento sarebbe meglio tenere in situazioni del genere; in ogni caso loro due tentano anche oggi, come altre volte hanno fatto, di fingersi semplicemente delle sprovvedute nell’andare a chiedere all’ufficio competente un semplice sussidio di disoccupazione che le metta in condizione di tirare avanti almeno per qualche altro mese senza doversi cercare alla svelta un lavoro. Sono sorelle gemelle, poco più che ventenni, e fino a quando è stato in vita il loro nonno materno che le teneva in casa con sé mantenendole con la sua generosa pensione, considerato che i loro genitori le avevano abbandonate a lui quando erano ancora delle bambine, non hanno mai avuto di che preoccuparsi. Ma dopo il suo recente funerale le cose sono rapidamente cambiate, ed anche se hanno potuto continuare ad abitare in quel piccolo appartamento che lui le ha lasciato in eredità, ed usufruire fino ad ora anche di qualche risparmio che il vecchio teneva da parte, per i prossimi tempi non possono ormai più contare praticamente su alcuna entrata economica.    

            Sono ancora quasi delle bambine, e sostenendosi a vicenda non hanno mai maturato quella spregiudicatezza che forse servirebbe per affrontare in maniera adeguata la realtà e la loro situazione. Stanno insieme continuamente aiutandosi in maniera reciproca, e proprio per questo non vogliono cercare un mestiere che le porterebbe quasi senz’altro a doversi dividere. L’impiegato le studia a lungo, identiche come sono, medita il loro caso cercando le parole più semplici per farsi comprendere, e poi spiega con calma che dalle leggi non è previsto un bel niente per un caso come quello di loro due, e che non possono comunque pensare di andare avanti ancora per molto in quella maniera, se non prendono qualche decisione di fondo. Allora le gemelle sorridono, ringraziano l’impiegato per le informazioni ricevute, e poi se ne vanno: in fondo sapevano già fin dall’inizio che non avrebbero ottenuto un bel niente, però adesso si sentono più sollevate, e soltanto ritrovarsi all’aria aperta lungo la strada, fuori da un ufficio del genere, le fa sentire subito meglio. Potrebbero sfruttare in qualche maniera la loro straordinaria somiglianza riflettono, questo è verissimo; però non saprebbero proprio a chi rivolgersi, anche perché praticamente non sanno far niente.

            Infine giungono alla fermata dell’autobus per tornarsene a casa, e proprio mentre sono lì ferme sul marciapiede, pensando alle loro cose e in attesa del primo mezzo pubblico in transito, un tizio chiede loro se sia possibile farle una foto, ad ambedue, magari a distanza ravvicinata. Ecco, parte da lì la loro fortuna: una semplice immagine di due espressioni così semplici e identiche come le loro che inizia a girare quasi per incanto lungo la rete, interessando in poco tempo una miriade di persone incuriosite da quella loro doppia schiettezza. Se ne fa immediatamente una campagna pubblicitaria per un grosso marchio, poi vengono invitate a partecipare a qualche serata, ed infine sbarcano persino in una televisione, senza cambiare un bel niente di loro stesse, anzi restando assolutamente così come sono. Ridono, si guardano negli occhi con maniere incredule per quello che le sta capitando, ma volentieri si lasciano andare agli eventi, perché neppure se lo volessero sarebbero ormai in grado di arrestare quello che si è avviato intorno a loro. 

            Il resto difatti va avanti quasi da sé, e tutti da adesso in avanti le chiamano semplicemente "le gemelle", tanto che ognuno tra chi le contatta, si pregia di conoscerle in qualche maniera, o almeno di sapere chi sono. Loro due si divertono in questo vortice, certe volte semplicemente si guardano per un attimo e scoppiano a ridere di nuovo, perché mai avrebbero immaginato un destino del genere, e soprattutto mai avrebbero sospettato di poter condividere così alla pari la loro fortuna. Essere rimaste sempre unite, alla fine, ha dato loro ciò che probabilmente meritavano fin dall’inizio, e rendersi conto, per una cosa ai loro occhi estremamente naturale come essere soltanto delle sorelle, di come sembrano tutti disposti persino a pagarle, le fa continuamente divertire, quasi fosse la prosecuzione di un semplice gioco, qualcosa che esattamente è nato proprio con loro.

           

            Bruno Magnolfi

mercoledì 14 ottobre 2020

Esclusiva proprietà.

         

 

            "Ci siamo fatti vecchi", dice l'uomo a suo fratello minore durante quelle due o tre volte all’anno in cui si ritrovano per una visita reciproca di cortesia. L’altro non dice niente, resta in silenzio, non gli piace quell’argomento, quasi sempre distoglie il proprio sguardo e parla subito d’altro, come non volesse darla vinta al tempo che passa e che purtroppo ogni volta quando si ritrovano riesce a mostrare sulle loro espressioni del viso gli approfondimenti che impone. Certo, c’è tutto un passato di cui ricordarsi: le cose migliori, quelle leggere, quelle senza alcuna tristezza da rammentare. Ridono insieme solo a ripensarle quelle piccole vicende di una volta, e ritrovano il gusto delle parole di un tempo, di quei modi di fare che avevano quand’erano solo degli sciocchi ragazzi, certo molto più spensierati di adesso, al tempo in cui tutto era ancora da fare. Ma ora certe volte qualcosa di più importante si fa largo tra i loro modi di fare. Ci sono ben state in mezzo a questi decenni le loro diverse maniere di riflettere sulle piccole e grandi decisioni da prendere, e c'è adesso nell’aria tutto il gusto delle loro esistenze che per qualche motivo calcano quella distanza che si è inserita tra loro, ed insieme a questo aspetto anche le scelte, quelle già fatte, quelle ancora da fare, le inevitabili ricadute dirette su loro due, sul loro essere comunque fratelli.

            Poi lui dice comunque che va tutto bene, che non ci sono dei grossi problemi, che le cose andranno avanti probabilmente come sempre sono andate, e loro due torneranno ancora a vedersi, inevitabilmente, a farsi una visita ogni tanto, e si sentiranno di nuovo bene durante quelle volte, come sempre è stato tra loro. L’altro lo guarda senza ribattere, poi dice però che si sente preoccupato, che qualcosa da qualche tempo non funziona come vorrebbe, non è una questione di salute o di tranquillità forse persa in questi ultimi mesi; piuttosto una sensazione, un piccolo cruccio, o l'improvvisa certezza che qualcosa stia davvero cambiando, senza nessun’altra possibilità. "Non può restare tutto com'è all'infinito", fa lui, e mentre lo dice si sente ridicolo, quasi come un prete quando dice le solite cose intorno alla fede. “Le variazioni che accadono hanno sempre un proprio senso. Quelle repentine a volte ci mettono anche alla prova”. Suo fratello sorride: “non parliamo di questo”, fa subito; “in fondo non è successo un bel niente, e poi ci tireremo fuori come sempre da qualsiasi pasticcio”.

            Tornano a ridere, rammentano ancora qualcosa delle giornate lontane, di quand’erano ragazzi quasi della medesima età, ed è un ritrovare così molte immagini che loro riescono ad evocare quasi intatte, come se niente in questi anni le avesse scalfite: non certo tutto questo tempo trascorso, pensa lui; perché loro si sentono superiori a quel tempo, e sono sicuri che finché riusciranno a ricordare nella stessa maniera ciò che adesso continuano ad avere presente, tutto andrà bene, non ci sarà niente a frapporsi al loro sentire leggero, innocente, quasi spensierato, come è stato fino ad ora. Poi si salutano, anche questa visita ormai è terminata, ognuno di loro torna da adesso alla sua vita differente, alla distante città dove tanto tempo prima ha scelto di vivere, e l’appuntamento è naturalmente rimandato alla prossima volta, alla scadenza quasi consueta, a quando ambedue sentiranno che è giunta di nuovo l’ora di rivedersi, di parlare ancora delle cose che sanno, che hanno vissuto, che ricordano bene, come un piccolo filo sottile che tiene legati i fatti che contano, quelli che restano ancora lì, tra di loro, come una proprietà quasi esclusiva.

 

            Bruno Magnolfi   

          

        

lunedì 12 ottobre 2020

Sto qua, non scappo.


 

            Avere una pistola dentro la tasca non è prerogativa di tutti. Lui gira per strada e si sente al sicuro, perché sa che nessuno sano di mente potrà mai aggredirlo sul serio oppure tentare di fargli del male. Sa difendersi, questo è il punto saliente, e non prova alcun brivido quando estrae il proprio ferro tenendolo stretto dentro la mano, proprio quando ne spiana la canna davanti alla faccia di qualche bel tipo dalle maniere poco tranquille, qualcuno magari che non ha mai visto neppure una volta prima di adesso. Si può fare ciò che si vuole quando si ha la certezza che niente possa metterti seriamente in una certa difficoltà, anche esattamente quando incontri un estraneo in questo modo, qualcuno che mostra dei modi di fare poco raccomandabili, riflette lui mentre cammina lungo la strada. La sua pistola è un giocattolo, è vero, questo però soltanto a lui appare evidente, perché sa che quando ci si muove in un contesto pericoloso, un dettaglio del genere alla fine ha ben poca importanza. Si tratta di camminare in mezzo alla gente e sentirsi completamente al sicuro, protetti, pensa lui, quasi che uno scudo infrangibile funzionasse come una corazza sopra le proprie membra altrimenti mollicce. Siamo esseri goffi, riflette, privi di qualsiasi difesa nei confronti di qualche sconosciuto che voglia attaccarti. Per questo dobbiamo sempre metterci in guardia, e mostrarci capaci di una reazione pronta e adeguata. Poco importa se l'arma che teniamo ben stretta sia poi soltanto un qualcosa di inoffensivo: quello che conta è l'effetto che produce sugli altri, specialmente tutti quei tipi che non si aspetterebbero mai di vedere una canna spianata contro di loro.

            Si vive male, pensa ogni volta che si trova ad incrociare per strada qualcuno che non conosce per niente o che soltanto guardandolo riesce a capire immediatamente come non sia certo uno nato da queste parti. “Sono pericolosi”, dice a volte in giro a quelli che spesso frequenta; “sono stranieri, non si sa che cosa possono farti, magari tirare fuori un coltello e provare con le minacce a lasciarsi scucire da te tutti i soldi che hai. Con me però questo giochetto non funziona per niente", afferma ancora con mosse da duro; qualcuno ride nel circolino dove lui va qualche volta per sentire se ci siano novità, ma non è importante che in mezzo a tutti ci siano ancora oggi delle persone che non riescono a credere quanto sia utile avere con sé la propria pistola. Forse non hanno provato che cosa vuol dire sentirsi sicuri di sé, protetti, capaci di affrontare qualsiasi situazione. Lui accarezza la canna lucida dentro la tasca e sa che non può avere paura di nulla, neppure di qualcuno arrivato chissà da quale luogo remoto, magari un tizio che non ha proprio nulla da perdere. “Sto al sicuro così”, dice agli altri; “mi guardo un po’ in giro con calma e poi basta”.

            Lo sa che anche qualcuno tra i suoi stessi amici non è affatto d’accordo con quello che lui afferma ogni volta, però non può farci niente se in giro ci sono zucche dure che non riescono a comprendere quanto sia fondamentale al giorno d’oggi non avere paura degli altri. Ci sono dei brutti ceffi che vengono apposta da noi a tirarci delle gran fregature, pensa mentre cammina. Ti puntano un po’ senza che tu ti accorga di nulla, e poi quando sei proprio rimasto da solo in una zona un po’ buia, ecco che tirano fuori il loro coltello per vedere se te la fai subito addosso e gli metti in mano al più presto tutti i tuoi soldi, l’orologio e quant’altro. Ma io non sono così sciocco, pensa ancora tra sé sorridendo. Prendo un attimo di tempo, tiro un respiro tanto per mostrare che farò subito quello che mi chiedono di combinare, e poi estraggo la mia bella pistola, e lì su due piedi gioco la mia carta migliore, scoppiando subito a ridere nel vedere il bel tipo che se la dà a gambe levate. Perché l’unica cosa che sanno fare gli stranieri che arrivano da queste parti è quella di correre, e forse mi dovrebbero persino ringraziare in casi del genere, perché io gli permetto a tutti loro di farlo.

 

            Bruno Magnolfi

sabato 10 ottobre 2020

Anni belli e spensierati.

 

                  

 

            Si dice da parecchi mesi a questa parte che le cose cambieranno rapidamente in tutta la zona, e quindi con certezza anche in questo piccolo paese appenninico. Già in molti tra quelli che abitano queste case di pietre, aprono le persiane verdi ogni mattina e poi si affacciano con curiosità alle loro finestre per rendersi conto se magari qualcosa anche minimo fosse per caso cambiato durante la notte lungo le poche strade del borgo. Altri invece tirano tardi alla sera, fermandosi in qualcuno dei pochi locali del centro abitato dove si può farsi servire una birra alla spina, oppure anche un bicchiere di vino, per poi chiacchierare a ruota libera con tutti coloro che sono presenti, e volentieri farsi una partita alle carte per vedere magari a chi tocca di pagare quella bevuta, cercando di comprendere dai pochi segnali che chi arriva riesce a trasmettere, se per caso inizi davvero a farsi sentire qualcosa di nuovo nell'aria. C’è un’atmosfera di attesa insomma, come una sospensione che ancora non mostra il motivo finale dell'agitazione che serpeggia tra tutti, ma che è confermata però dalle parole di alcuni che sostengono come sia ormai impellente quel gran cambiamento annunciato: “questione di pochi giorni”, dicono alcuni, anche se poi non sanno neppure spiegare di che cosa effettivamente si tratti.

            Alcune donne poi si radunano quasi sempre a fine mattinata vicino alle proprie abitazioni, proprio davanti a qualche portone di casa, sistemandosi addosso ogni tanto lo scialle che indossano tutte, anche se non fa ancora freddo, ed anche se ognuna di loro, come sempre è successo, dice alle altre che ha già un sacco di cose di cui preoccuparsi: la casa, la famiglia, i bambini, il marito, per cui non avrebbe proprio tempo per altro, e la ragione principale però che la porta ancora ad attardarsi in questi giorni prima di rientrare giustamente nella propria abitazione, è quella di riuscire a capire se ci siano davvero delle notizie che riguardano il futuro di loro povera gente, o se qualcosa, come tutti ogni giorno sostengono, abbia iniziato davvero a variare il corso delle cose che, da tempo immemorabile, dovrebbero sorreggere il mondo. Perché molti giurano che tutti i paesani da un attimo all’altro saranno costretti a cambiare i propri comportamenti, ad adottare certe misure che per il momento si fa fatica persino ad immaginare, ma che saranno necessarie, indispensabili, e senza alcun dubbio.

Intanto si continua a mandare avanti le proprie faccende come sempre si è fatto tra quelle contrade, ognuno badando a svolgere bene il proprio mestiere, e a portare avanti tutte quelle attività che gli competono e per cui è conosciuto da tutti, e poi quando alla sera ogni famiglia si raduna come sempre al proprio domicilio, abbassando la voce ci si interroga con preoccupazione, specialmente tra moglie e marito, su cosa mai stia succedendo in queste giornate in tutte le case di quel loro piccolo centro civico "Non preoccupiamoci troppo", dice già qualcuno di questi maggiormente ottimista mentre è seduto alla tavola dove si consuma la cena; "le cose in un modo o in un altro si aggiusteranno; ed anche se forse dovremo cambiare per forza certi comportamenti adesso per noi abituali, nessuno però verrà qui per imporci dei modi di essere del tutto diversi da quelli che siamo da sempre stati abituati a tenere fino a questo momento, e addirittura il pensiero di dovercene andare da qua per qualche motivo che adesso non riusciamo a comprendere, sono sicuro  resterà un'idea strampalata, del tutto campata per aria".

I bambini in genere ridono, a loro non interessa per nulla tutta questa preoccupazione che va manifestandosi tra i loro genitori. Si corrono dietro al pomeriggio dopo la scuola, si chiamano l’un l’altro con voce distesa, dicono direttamente con i loro sguardi  vivi e frizzanti che non hanno paura del futuro e dei suoi cambiamenti: sono ancorati al presente, giocano, ridono, fanno tutto quello che i bambini hanno sempre fatto prima di loro, e giurano, qualsiasi possa succedere, che non dimenticheranno mai come siano stati belli e spensierati quegli anni.

 

Bruno Magnolfi

 

          

giovedì 8 ottobre 2020

Assedio da semplice inerzia.


 

            Lei è nervosa, come le capita sempre in quest’ultimo periodo, e la sua faccia tirata mostra adesso con evidenza delle piccole rughe sottili, quasi scolpite nell'espressione del viso sempre serio e accigliato. "Sono stanca", dice spesso a chi la interroga per giustificare i suoi scatti e le risposte un po’ troppo asciutte, ma non si capisce se sia il troppo lavoro a ridurla in questo modo, oppure la situazione generale che vive. La sua amica di sempre passa a farle una visita qualche volta durante il tardo pomeriggio, dopo il lavoro in ufficio, e lei la fa sedere al tavolo della cucina luminosa del suo appartamento, le serve generalmente una tisana fumante, e lascia che parli, che esprima le sue cose a ruota libera, limitandosi negli ultimi tempi ad ascoltarla e basta, senza ribattere niente e senza quasi interloquire. ”Potresti svagarti”, le fa l’altra ogni tanto durante queste visite. “O magari potremmo farci un giro insieme da qualche parte, solo io e te; oppure stasera stessa infilarci in un cinema a vedere qualche pellicola.”. Lei le volta le spalle, scuote la testa, lascia il suo sguardo abbassato sul tavolo, o sul fornello dove ha messo a bollire l’acqua per la tisana. “Un’altra volta”, le fa; “stasera non ne ho proprio voglia”.

            Rimasta da sola si perde in mezzo a mille pensieri, e poi gira per casa riflettendo con intensità sul bisogno impellente di occuparsi di tutte quelle cose necessarie che richiede il suo pur piccolo appartamento, e così inizia col fare delle piccole azioni, preparare la lavatrice, tirare fuori dal frigo qualcosa per cucinarsi la cena, pulire con cura i piani dove forse si è accumulata nella giornata una quasi invisibile e leggerissima polvere; poi però decide di uscire, in solitudine, senza neppure darsi un itinerario, oppure un luogo preciso verso dove recarsi. Con una calma studiata indossa la giacca più comoda che possiede, senza chiedersi nulla, come rispondendo ad una semplice necessità, e poi via, in mezzo agli altri, ad attraversare le strade del suo quartiere popoloso come fosse una barca sul mare, sballottata dalle onde immaginarie dei rumori delle macchine che transitano, e dalle parole che si può ascoltare tra le persone in giro a gruppi, ferme o mentre camminano, come se quel caleidoscopio di sillabe confuse che si possono ascoltare fossero tutto ciò che adesso ci vuole per lei, quasi un sentire ancora intorno a sé la vita che scorre, la gente che parla, che si chiama, sorride, si urla, compie le scelte che deve.

            Poi, soltanto perché lo vede piuttosto affollato attraverso le ampie vetrine, entra in un caffè dove non è mai stata, così si siede ad un tavolino, aspetta che un cameriere le chieda qualcosa, si fa servire una tazza di cioccolata, cerca di sentirsi il più possibile una persona come tutte le altre. Ad un tratto sente quasi il bisogno di avere qualcuno lì accanto a sé, e rimpiange di non aver dato retta alla sua amica per uscire insieme, perché se si guarda un po’ attorno, vede che nessuno là dentro è da solo come lo è lei in questo momento. Si sente però attratta dal suo isolamento, da quello starsene per conto proprio, anche se allo stesso tempo ne prova anche una certa paura, a tratti quasi un completo terrore, come se l’abitudine a stare così in solitudine fosse ormai calata in modo definitivo dentro di lei, e lei non potesse più farne a meno.

            Si scuote, si guarda attorno con occhi imploranti, sorseggia la sua cioccolata ed intanto pensa che presto non riuscirà più ad uscire da quella inerzia che adesso la sta assediando sempre di più. Arriva la sua amica, certo per una combinazione fortuita, e subito lei si alza, la saluta sorpresa, l’abbraccia, e sente d’improvviso di avere come una gran voglia di piangere, anche se si trattiene, per forza, perché sa che forse c’è un piccolo sforzo ulteriore da fare, proprio da adesso in avanti, qualcosa che lei non può più rimandare.

 

            Bruno Magnolfi   

 

         

sabato 3 ottobre 2020

Sorrisi armati.

 

         

 

            “Adesso sono stanca delle tue storie”, dice lei in modo deciso, stavolta senza neppure alzare minimamente la voce, come se le sue parole fossero soltanto un semplice suggerimento fatto alle orecchie di un amico oppure di un conoscente. Suo marito rimane sorpreso di questa uscita, ma non la guarda, in fondo spesso si sente annoiato persino lui stesso di quello che cerca sempre di inventarsi in certi casi, tanto per mostrare la sua personalità che lui ritiene brillante, divertente, estroversa, capace di maniere intelligentemente spiritose anche quando le cose tutt’intorno non vanno affatto bene, qualche volta evitando, in questa maniera e con queste presunte capacità, di affrontare i problemi stessi così come si presentano. Di fatto prova sempre un leggero brivido di angoscia quando qualcuno attorno a lui parla troppo seriamente di alcuni argomenti che gli pesano, mostrando così, forse proprio come sta accadendo adesso, il lato più evidente di una qualche verità dal sapore vagamente amaro. Si sposta da un lato perciò, offre le spalle a sua moglie fingendo di interessarsi di qualcosa, ma vorrebbe quasi annullarsi adesso, addirittura non essere mai stato lì, o magari uscire al più presto da quella stanza, improvvisamente troppo stretta per affrontare una qualsiasi discussione con lei, ed allontanarsi volentieri dall’argomento che d’improvviso sembra delinearsi all’orizzonte, come se tutto questo gli fosse solo minimamente possibile. 

            “Spiegati”, le fa allora di rilancio, nonostante abbia compreso benissimo di che cosa voglia parlarle la donna con cui divide l’esistenza da quasi dieci anni. “Forse ho sbagliato qualcosa senza rendermene conto”, dice alleggerendo il tono della voce, alzando le sopracciglia mentre ora la guarda, e mostrandole un debole sorriso che dura appena lo spazio di un secondo. Anche questo è un atteggiamento che lui cerca talvolta di tenere, specialmente in quei casi quando si sente costretto a chiarire qualcosa di sé, e che si dimostrano a suo parere gonfiati di una importanza maggiore di quanto lui vorrebbe, elementi che normalmente cerca di maneggiare con una certa superficialità, senza addentrarsi mai troppo soprattutto nei suoi nascosti convincimenti. Poi si siede, allontanando di nuovo lo sguardo da lei, prendendo in mano un vecchio giornale rimasto sul piano del tavolo, ed affidando tutta la sua difesa ai modi navigati di chi alza le spalle con facilità.

            “Lo so che ti ritieni capace di raggirare chiunque, ma nel mio caso oramai ti conosco troppo bene per lasciare che i tuoi giochi funzionino davvero”, fa lei sempre con il tono basso di chi prende le distanze senza innervosirsi. Lui resta in silenzio, non tanto perché non trovi delle parole per ribattere a ciò che sta ascoltando, quanto per il dubbio ben fondato di peggiorare ulteriormente la situazione nella semplice ricerca di accampare delle scuse, dei chiarimenti, tirando fuori delle giustificazioni sparse di qualcosa che al contrario gli appare già evidente persino nelle parole che in questo momento gli giungono alle orecchie. Perciò sceglie un’altra tattica: “d’accordo”, le fa dopo una lunga pausa di silenzio; “che cosa vogliamo fare adesso, forse tenerci il broncio per qualcosa già avvenuto, magari scontrarci per ricostruire i fatti o le occasioni, oppure prendere dei provvedimenti senza neppure uno scopo troppo preciso; lo puoi fare, se vuoi, ma io non mi ritengo d’accordo, ed ecco tutto”. Lei lo guarda, sa che non può passare sopra a quanto accaduto come se niente fosse successo, però non le va neppure di intavolare una guerra casalinga che non porterà mai a nessuno dei due niente di buono. “Mi piacerebbe tu fossi diverso”, gli fa allora, comprendendo immediatamente il tasto falso così toccato. “Questo è impossibile”, dice lui, mostrandole un’altra delle sue espressioni da giullare. Lei allora lo guarda e poi sorride. Ma forse di sé, più che di lui.

 

            Bruno Magnolfi