domenica 24 maggio 2020

Abnegazione.


          

            Davanti alle enormi vetrate, di fronte all’ingresso, c’è un enorme piazzale asfaltato riservato al parcheggio. Difficilissimo trovare là in mezzo un posto auto fino a qualche tempo fa, tanto che ultimamente fa quasi tristezza rendersi conto come spesso in questi giorni rimanga quasi vuoto. “Ho perduto la spinta”, fa lui all’improvviso mentre guarda le poche macchine ferme brillare adesso nel sole, qua e là. “Non dire sciocchezze”, fa lei dopo un attimo senza neppure guardarlo, mentre riordina alcune cartelle dei suoi pazienti dentro l’ufficio al secondo piano del piccolo ospedale cittadino. “Dico sul serio”, prosegue lui; “la missione che sentivo dentro di me si è come intorpidita in queste ultime settimane, ed adesso non sento più quel bisogno di profondermi verso gli altri che avvertivo da sempre dentro di me”. Lei interrompe per un momento il suo compito, osserva di fretta il profilo di quel medico che è sempre stato il suo punto di riferimento, poi fa: “sei stanco, indubbiamente; è normale sentirsi così in questo periodo, anche d’improvviso”.
            Poi ambedue scendono le scale, sempre tenendosi a dovuta distanza, salutano qualcun altro medico del personale che sta montando proprio adesso di turno, ed infine si fermano per un momento sul largo pianerottolo del primo piano, si accostano con calma alle macchinette per il caffè ed inseriscono uno alla volta la propria moneta prendendosi ognuno una bevanda calda. “Non so”, dice lui, “probabilmente non dovrei neanche parlarne, specialmente in un momento come questo, ma è come se all’improvviso tutto mi apparisse identico, monotono, sterile di qualsiasi possibile slancio. Sono cosciente del fatto che tutta la gente stia tifando per noi, per il nostro sacrificio in corsia, per la disponibilità totale che stiamo dimostrando, però qualcosa di intimo si è inserito dentro di me, ed anche se ancora sono orgoglioso di essere parte del meccanismo sanitario di questo paese, adesso però mi sento a terra, senza più alcuna volontà per andare avanti”.
            Lei lo guarda, e nota effettivamente una stanchezza profonda nella sua espressione, come se qualcosa davvero non avesse funzionato negli ultimi giorni durante il suo necessario ripristino quotidiano di entusiasmo, ed adesso provasse per questo motivo un intenso disagio, quasi un’incapacità a riprendere in mano il compito abbracciato e scelto per sempre. Sorseggia per un attimo il suo caffè, come sempre senza apprezzarlo, a compimento comunque del solito rito di fine turno, e poi pensa a tutte le parole che ha appena ascoltato dal suo esperto collega, senza riuscire ad obiettare qualcosa che abbia un minimo senso. In fondo è normale sentirsi svuotati quando tutto un paese ha richiesto da te il massimo in ogni possibile momento del giorno, pensa come fosse da sola. Ma non sa dire niente, niente che possa opporsi a quanto ha appena ascoltato.
            Ambedue gettano i bicchierini monouso dentro un bidone, poi rapidamente raggiungono la postazione dove si deve far strisciare il proprio cartellino dentro a una macchina, e compiono questa operazione esattamente come ogni giorno, in qualsiasi inizio o fine turno, forse senza neppure provare una particolare emozione. Escono, e finalmente sono all’aperto, davanti all’ampio parcheggio delle vetture, nell’aria pura e leggermente ventosa della serata, quasi priva da tutti i bacilli che purtroppo circolano dappertutto là dentro, in quella casa di cura, lasciandosi alle spalle un’altra giornata ordinaria, un altro turno concluso, un ulteriore servizio per la cittadinanza a cui generosamente hanno dato seguito, come ogni volta si deve, senza porsi domande, senza creare complicazioni. Quindi si salutano, senza dire altro, scambiandosi soltanto alcuni pensieri comuni, perché ognuno dei due ha una casa verso dove dirigersi, e ricaricare la propria abnegazione.

            Bruno Magnolfi

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