Percorro il lungo tratto di strada
senza riuscire neanche a vedere le case, le auto, le persone, praticamente
niente di ciò che scorre come sempre attorno a me. Sono concentrato quasi al
massimo cercando di immaginare quello che dovrò sentirmi dire trasportato dalla
dolce voce di Monica, consapevole come sono che questo momento che ho di fronte
sarà assolutamente un discrimine, un passaggio, il valico inevitabile di un
muro, da cui deriverà soltanto e indubbiamente un prima e un dopo, e che in
questo stesso momento non posso proprio fare niente per modificare gli
avvenimenti in cui mi sento completamente immerso, perché il mio compito adesso
è diventato solamente quello di subire le decisioni che sono già state prese per
me, e probabilmente definite senza il mio parere. Potrei fermare il mio passo
veloce, immobilizzarmi su di un marciapiede e riflettere meglio tutto quello
che sto immaginando, ma non potrei mai impedire a ciò che sta o non sta per
accadere che alla fine poi succeda. Rallento, anche se sono consapevole che
qualsiasi ragionamento io possa inserire nella scarica elettrica che produce in
me questa necessità di venire a conoscenza del mio destino, non cambierà mai di
una virgola le sorti della mia relazione con questa donna per me meravigliosa,
ma contemporaneamente dal carattere spesso del tutto incomprensibile al mio
modo di essere.
Alla fine, non so neanche come,
giungo davanti al locale dove ci dobbiamo incontrare, tiro un profondo respiro
mentre sono ancora sulla soglia della larga porta vetrata, e poi entro,
rendendomi conto immediatamente che Monica, come già peraltro immaginavo, non è
ancora giunta. Non ha alcuna importanza, penso con un minimo di leggerezza, e
dopo un cenno al cameriere vado a sedermi ad un tavolino abbastanza appartato,
in un angolo della sala da tè praticamente vuota. Attendo, non ho neppure più
voglia di pensare a cosa lei mi dirà, o a cosa magari dirò io, e a prepararmi
con una maschera di indifferenza a qualsiasi parola mi troverò a dover
ascoltare. Sto qui, resto qui, mi osservo con gli occhi di chi passa in questo
caffè, e magari è insieme a degli amici, parla con loro, ride, scherza, si
guarda in giro senza troppa curiosità. Potrei fuggire, penso; alzarmi da questa
sedia e andarmene, come se non ci fosse niente d’importante da queste parti,
come se non avessi mai avuto alcun appuntamento, alcun bisogno di una parola
chiara atta a svelare questo periodo così contorto della mia vita. Invece resto,
e Monica arriva, anche se ormai è in forte ritardo.
Si scusa, ma <<anch’io sono
arrivato da poco>>, dico per non farla sentire troppo in colpa. La
guardo, lei è tranquilla, dice subito che prima di cominciare ad uscire insieme
a me ha avuto una breve storia con una persona, un uomo che conosce, e che adesso
è incinta. Mi pietrifico, in una frase sola ha messo due contenuti che danno la
mazzata definitiva alla nostra relazione già traballante, ma cerco di sostenere
la bordata. <<Quindi, non è più neppure il caso di vedersi, io e
te>>, dico sottovoce. Lei annuisce, dice che si sente confusa e
dispiaciuta, ma in ogni caso la sua decisione è quella di portare avanti la
gravidanza, anche se l’altro è sposato e probabilmente non potrà riconoscere
come padre questo bambino. <<Non gli chiederò nemmeno un sacrificio del
genere>>, aggiunge facendomi sentire ancora più al margine di ogni
possibilità. Beve rapidamente il caffè che intanto le hanno servito, mi guarda,
dice: <<Adesso però è meglio che vada. Scusami per tutto>>. Infine,
si alza, riprende la sua borsa, va via, senza lasciarmi neppure la possibilità
di dire niente. La porta a vetri del locale si chiude in un attimo dietro di
lei, ed io mi sento completamente svuotato. Resto seduto, non vorrei compiere
alcuna azione, perché qualsiasi cosa renderebbe più vero ciò che ho appena ascoltato,
ed io sarei più solo, disperato, inutile, nella mia pretesa sentimentale.
Poi mi decido, pago i caffè,
lentamente scivolo nella normalità della serata, anche se i miei movimenti
sicuramente appaiono goffi, e quando mi ritrovo sopra al marciapiede non riesco
neppure a concepire quale sia la direzione giusta che io possa prendere, e quindi
verso dove dovrei dirigermi adesso, e soprattutto a quale scopo, per ottenere
chissà che cosa da ciò che mi circonda, visto che le mie gambe sembrano non
aver neppure voglia di camminare lungo una precisa traiettoria. Non so come,
infine, giungo a casa, e d’improvviso spero con tutte le mie forze che il mio
coinquilino non sia ancora rientrato, poi apro il portone dell’appartamento, sono
solo, varco la soglia e vedo che dentro è proprio tutto uguale, come ogni
giorno, come se niente di importante fosse mai accaduto, e la mia faccia dentro
alla cornice elegante dello specchio appeso al muro dell’ingresso, si mostrasse
la solita di sempre, immodificabile, come una fotografia scattata chissà
quando, e resa così invariabile, quasi un documento di sottoscrizione alla mia
incapacità di stare in mezzo agli altri, e di desiderare uno spicchio di vita
come tutti.
Bruno Magnolfi